mercoledì 29 luglio 2009

La conoscenza del dialetto locale per insegnare. Il test dell’idiozia arriva in Parlamento. Si prepara una stagione buia per il Paese

di Salvatore Parlagreco
Da: SICILIAINFORMAZIONI

Mi trovavo sotto un ombrellone su una splendida spiaggia dell’isola d’Elba, con un libro in mano e l’ebbrezza della felicità che solo quella condizione concede a chi non si pone traguardi irraggiungibili. Accanto, sotto un ombrellone un’anziana signora, anch’essa con un libro in mano, che riconobbi subito, per via della grafica ed il colore, come un libro di Sellerio. Non ricordo che cosa mi fece attaccare bottone, ricordo che le chiesi se il libro che leggeva fosse di Andrea Camilleri. Mi ha sempre incuriosito il successo di Camilleri nelle lande del Nord. Se ho difficoltà io a capire il dialetto siciliano dello scrittore, mi sono sempre detto, come fanno gli altri ad essere innamorati dei suoi romanzi, a gustarli, comprenderne il senso, spesso sorridere.
Avevo appena letto Il Birraio di Preston, scoprendo che si può ridere senza freni, da soli e a letto leggendo un libro. Lo trovavo esilarante ma certi brani mi apparivano proibitivi ai fini della comprensione. Dunque, la mia curiosità era giustificata. La signora, invece che rispondere alla mia domanda, disse di essere una casalinga di Varese, con un sorriso ironico. Avevo accanto lo stereotipo della benpensante borghese nordista piena di paure e con la puzza sotto il naso, piena di pregiudizi verso i terroni. La confessione della signora aumentò il mio desiderio di sapere. Oltre che le ragioni dell’amore nordista per il dialetto siciliano, avrei scoperto come sono veramente le casalinghe di Varese. La signora mi riferì di avere letto tutto Camilleri e di trovarlo delizioso. Quanto alla comprensione, alzò le spalle, come a dire che non era affatto un problema. Non era importante che capisse parola per parola, ma che comprendesse il senso, e lei il senso lo coglieva facilmente. Il dialetto siciliano, grazie a Camilleri, sfondava nei luoghi più inaccessibili, e ne ero compiaciuto.
Fin ad allora mi portavo appresso il rammarico, tutto intellettuale e un poco snob, della scuola siciliana che un millennio fa, dovette cedere la primogenitura del volgare al toscano “a causa” di Dante Alighieri, Petrarca e Boccaccio. Camilleri non ha niente a che vedere con i mostri sacri della lingua italiana, ma la riconquista cominciava proprio da lui. Il dialetto siciliano, trascorso il periodo di grande spolvero, negli anni trenta, legato al successo del cinema di Angelo Musco, si era inabissato, a favore di altri dialetti (o lingue), come il romanesco, per esempio, o il napoletano. Hanno un bel lamentarsi il sottosegretario Castelli ed altri statisti della Lega Nord della prevalenza del romanesco o del napoletano, se non tengono conto di Totò e Alberto Sordi, tanto per fare qualche esempio banale. La lingua viaggia con le gambe degli uomini, non c’è che fare. Tutte queste cose avevo in testa quando ho saputo dell’iniziativa leghista in Parlamento: l’introduzione di un test che attesti la conoscenza delle tradizioni e del dialetto del luogo per i docenti di ogni ordine e grado. Se non sai parlare e scrivere il ligure non puoi insegnare in Liguria.
E’ un modo, nemmeno furbo, per alzare le barriere doganali nei confronti dei docenti meridionali che sono tanti e sparsi per la Penisola a causa del fatto che nel Sud per i giovani che si affacciano nel mondo di lavoro ci sono state, e ci sono, poche alternative all’impiego pubblico: polizia, esercito, scuola eccetera. Ora, a quanto pare, e in piena crisi, mentre infuria la polemica Nord/Sud, i leghisti non hanno trovato di meglio che proporre un altro muro, che non assomiglia a quello alzato, per ragioni di sicurezza, dagli israeliani a Gaza, né alla muraglia statunitense ai confini con il Messico, ma che ha l’effetto di un pugno nello stomaco per chi ancora crede nello spirito di solidarietà e nel buon senso. Avendo conosciuto la casalinga di Varese sono indotto a credere che le provocazioni leghiste non rappresentino affatto un bisogno dei padani, ma questo non mi rassicura per niente perché sospetto che da venti anni a questa parte l’educazione alle paure, agli egoismi sono nate e cresciute insieme con le ampolle del Po’ grazie alle ronde della comunicazione nordista, Lega e no.
La voglia di entrare nelle stanze dei bottoni, legittima, per corrispondere a bisogni inevasi e per “aggiustare” lo Stato spendaccione con i soldi del Nord, ha creato la Padania e rifatto la storia e la geografia del Paese; soprattutto, a causa dell’assenza di altre agenzie educative, ha “costruito” o valorizzato paure, sentimenti dapprima affioranti, imponendoli all’intero Paese. Pretendere la conoscenza delle tradizioni del luogo in cui si insegna, ovviamente, è assolutamente legittima, come conoscere l’inglese se si insegna l’inglese o il latino se si insegna il latino. L’abilitazione all’insegnamento serve proprio a questo scopo. Ma il test dialettale è solo una provocazione, non potrebbe essere affrontato nemmeno dagli aspiranti prof del posto. Autorevoli costituzionalisti hanno, tra l’altro, eccepito che sarebbe contrario alla nostra Carta.Il punto non è però, il favore che il Parlamento concederà all’iniziativa – crediamo, assai modesto – quanto la scelta da parte della Lega di gettare benzina sul fuoco. Lo stato maggiore leghista ha deciso di rilanciare di fronte alle reazioni del Mezzogiorno su alcuni provvedimenti legislativi e alla riproposizione della questione meridionale con largo successo d’opinione. Radicalizzando lo scontro, la Lega ha tutto da guadagnare. Siamo alla vigilia di una stagione politica che potrebbe frammentare il Pdl anzitutto, ma non solo, sulle questioni Nord/Sud. Una stagione in cui la casalinga di Varese è solo una spettatrice: lei continua a comprare Andrea Camilleri e non libri in dialetto lombardo fino a quando nella sua Padania non ci sarà un Camilleri.

domenica 19 luglio 2009

Diciassette anni di silenzio

Da La Repubblica del 19 luglio 2009 di Attilio Bolzoni e Valerio Viviano. Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone e sulla strage di via d'Amelio accusa i servizi e lo Stato. Riina sul delitto Borsellino "L'hanno ammazzato loro"


Paolo Borsellino
TOTÒ RIINA, l'uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull'uccisione di Paolo Borsellino dice: "L'ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.
Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all'esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un'"uscita" clamorosa sull'affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.
Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l'avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D'Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.
Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L'ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l'ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L'ammazzarono loro...".
E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".
Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l'omicidio di Borsellino, per l'omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell'inchiesta Borsellino non cambierà, fra l'altro adesso c'è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".
Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".
E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E' tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell'udienza del 24 gennaio 1998.
Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell'Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".
E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall'altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest'altra istanza".
Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l'esplosione dell'autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".
Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".

giovedì 16 luglio 2009

lettera del Presidente della Repubblica Napolitano al Governo

16 luglio 2009 – Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha promulgato ieri la legge sulla sicurezza. In una lettera inviata al presidente del consiglio, ai ministri dell’Interno e della Giustizia e, per conoscenza, al Parlamento, il Capo dello Stato evidenzia diverse criticità nel testo, che suscitano in lui “perplessità e preoccupazioni”.

Quello che segue è il testo integrale della lettera di Napolitano:

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Roma, 15 luglio 2009
Ho oggi promulgato la legge recante “Disposizioni in materia di pubblica sicurezza” approvata il 2 luglio scorso.
Ho ritenuto di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme – ampiamente condivise in sede parlamentare – che rafforzano il contrasto alle varie forme di criminalità organizzata sia intervenendo sul trattamento penitenziario da riservare ai detenuti più pericolosi (art. 2 commi 25 e 26) sia introducendo più efficaci controlli e sanzioni per le condotte di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni e nella economia legale (art. 2 commi 2, 20, 22, 29-30). Non posso tuttavia fare a meno di porre alla vostra attenzione perplessità e preoccupazioni che, per diverse ragioni, la lettura del testo ha in me suscitato.
Il provvedimento trae origine dal disegno di legge presentato dal Governo in Senato il 3 giugno 2008, dopo che, per l’assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza oltre che per la natura dei temi trattati, si era convenuto che alcune sue significative disposizioni non potevano essere inserite nel decreto legge – sempre in tema di sicurezza – emanato qualche giorno prima (decreto legge 23 maggio 2008, n. 92). Gli originari 20 articoli del disegno di legge divennero però ben 66 nel testo licenziato dall’Assemblea del Senato il 5 febbraio 2009 venendo poi accorpati in 3 attraverso la presentazione di “maxi-emendamenti” sui quali il Governo appose la questione di fiducia alla Camera : fiducia ottenuta il 14 maggio 2009 e poi nuovamente apposta al Senato sul medesimo testo per la definitiva approvazione del 2 luglio.
I tre articoli della legge si compongono ora, rispettivamente, di 32, 30 e 66 commi. Con essi si apportano modifiche o integrazioni a 43 disposizioni del codice penale, a 38 disposizioni del testo unico sulla immigrazione, a 16 disposizioni dell’ordinamento penitenziario e ad oltre circa 100 disposizioni inserite nel codice di procedura penale, nel codice civile e in 30 testi normativi complementari o speciali.
A spiegare il ricorso a una sola legge per modificare o introdurre disposizioni inserite in molti disparati corpi legislativi, tra i quali anche codici fondamentali, è stata la convinzione che esse attenessero tutte al tema della “sicurezza pubblica” nella sua accezione più ampia, funzionale all’intento di migliorare la qualità della vita dei cittadini rimuovendo situazioni di degrado, disagio e illegalità avvertite da tempo.
Dal carattere così generale e onnicomprensivo della nozione di sicurezza posta a base della legge, discendono la disomogeneità e la estemporaneità di numerose sue previsioni che privano il provvedimento di quelle caratteristiche di sistematicità e organicità che avrebbero invece dovuto caratterizzarlo.
In altre occasioni, ho rilevato pubblicamente (rivolgendomi alle “alte cariche dello Stato”, a partire dal dicembre 2006), come provvedimenti eterogenei nei contenuti e frutto di un clima di concitazione e di vera e propria congestione sfuggano alla comprensione della opinione pubblica e rendano sempre più difficile il rapporto tra il cittadino e la legge. Ritengo doveroso ribadire oggi che è indispensabile porre termine a simili “prassi”, specie quando si legifera su temi che – come accade per diverse norme di questo provvedimento – riguardano diritti costituzionalmente garantiti e coinvolgono aspetti qualificanti della convivenza civile e della coesione sociale. E’ in giuoco la qualità e sostenibilità del nostro modo di legiferare.
D’altronde è stato un organismo svincolato da ogni posizione di parte – il Comitato per la legislazione della Camera – a segnalare concordemente, nell’esaminare il disegno di legge in questione, nella seduta del 29 aprile 2009, che alcune disposizioni non rispondevano alle esigenze di “semplificazione della legislazione” ; altre non erano conformi alle esigenze di “coerente utilizzo delle fonti” ; altre adottavano “espressioni imprecise ovvero dal significato tecnico – giuridico di non immediata comprensione” o si sovrapponevano ad altre già vigenti ; altre, ancora, erano carenti sotto il profilo “della chiarezza e della proprietà della formulazione” (il richiamo è da intendersi ora all’art. 1 comma 28, all’art.3 commi 56 e 58, all’art. 2 comma 25 lett. f ) n. 3 e, infine, all’art. 3 commi 3,6 e 14). Ma tali stringenti osservazioni sono cadute nel vuoto.
In proposito, mi limito ad aggiungere che solo in casi eccezionali può tornarsi a legiferare sull’identico tema dopo brevissimo tempo ampliando l’area di applicabilità di istituti processuali, modificando fattispecie criminose o collocando altrove le stesse previsioni (come invece accade tra l’altro, per le disposizioni dell’art. 1 commi 2-5,14,26 e per quelle dell’art. 2 commi 21-22 e 27) ; così come appare contraria ai principi cardine di una corretta tecnica legislativa la circostanza che la modifica della stessa norma e dello stesso comma (art. 16 comma 1 del d.lgs. 286/1998) venga effettuata (come qui accade) in due diverse parti dello stesso provvedimento (art. 1 comma 16 lett. b ) e art. 1 comma 22 lett. o).
La formulazione, la struttura e i contenuti delle norme debbono poter essere “riconosciuti” (Corte costituzionale n. 364 del 1988 ) sia da chi ne è il destinatario sia da chi deve darvi applicazione. Il nostro ordinamento giuridico risulta seriamente incrinato da norme oscuramente formulate, contraddittorie, di dubbia interpretazione o non rispondenti ai criteri di stabilità e certezza della legislazione : anche per le difficoltà e le controversie che ne nascono in sede di applicazione.
Sulla base di quanto esposto, aggiungo di aver ravvisato nella legge anche altre previsioni che mi sono apparse – sempre a titolo esemplificativo – di rilevante criticità e sulle quali auspico una rinnovata riflessione, che consenta di approfondire la loro coerenza con i principi dell’ordinamento e di superare futuri o già evidenziati equivoci interpretativi e problemi applicativi.Mi riferisco alle disposizioni che hanno introdotto il reato di immigrazione clandestina (art. 1 commi 16 e 17). Esso punisce non il solo ingresso, ma anche il trattenimento nel territorio dello Stato. La norma è perciò applicabile a tutti i cittadini extracomunitari illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento della entrata in vigore della legge. Il dettato normativo non consente interpretazioni diverse : allo stato, esso apre la strada a effetti difficilmente prevedibili.
In particolare, suscita in me forti perplessità la circostanza che la nuova ipotesi di trattenimento indebito non preveda la esimente della permanenza determinata da “giustificato motivo”. La Corte costituzionale ( sentenze n. 5/2004 e n. 22/2007 ) ha sottolineato il rilievo che la esimente può avere ai fini della “tenuta costituzionale” di disposizioni del genere di quella ora introdotta.
L’attribuzione della contravvenzione di immigrazione clandestina alla cognizione del giudice di pace non mi pare poi in linea con la natura conciliativa di questi e disegna nel contempo, per il reato in questione, un “sottosistema” sanzionatorio non coerente con i principi generali dell’ordinamento e meno garantista di quello previsto per delitti di trattenimento abusivo sottoposti alla cognizione del tribunale. Per il nuovo reato la pena inflitta non può essere condizionalmente sospesa o “patteggiata”, mentre la eventuale condanna non può essere appellata.
Le modifiche apportate dall’art. 1 comma 22 lett. m ) in materia di espulsione del cittadino extracomunitario irregolare, determinano – a ragione di un difettoso coordinamento normativo – il contraddittorio e paradossale effetto di non rendere più punibile (o al più punibile solo con un’ammenda) la condotta del cittadino extracomunitario che fa rientro in Italia pur dopo essere stato materialmente espulso. La condotta era precedentemente punita con la reclusione da uno a cinque anni.
L’art. 1 comma 11 introduce una fattispecie di tipo concessorio per l’acquisto della cittadinanza da parte di chi è straniero e contrae matrimonio con chi è italiano. La norma non individua però i criteri in base ai quali la concessione è data o negata e affida qualsiasi determinazione alla più ampia discrezionalità degli organi competenti.
Tra le modifiche apportate al codice penale, si osserva in particolare che l’art. 3 comma 27 vieta di effettuare il giudizio di equivalenza o prevalenza tra alcune circostanze aggravanti del reato di rapina ed eventuali circostanze attenuanti. Le aggravanti del reato di rapina sono le stesse previste per quello di estorsione che, rispetto al primo, è punito più gravemente. La norma che impedisce il bilanciamento delle aggravanti non è però richiamata per la estorsione, con la irragionevole conseguenza che, per il delitto più grave, è consentito “neutralizzare” l’aumento sanzionatorio derivante dalla presenza delle circostanze. In via generale, comunque, i ripetuti e recenti interventi legislativi che hanno derogato al principio della bilanciabilità tra aggravanti a effetto speciale e attenuanti (art. 69 c.p.), sembrano ormai imporre una disciplina che regoli in modo uniforme l’intero sistema, razionalizzandolo e semplificandolo.
L’art. 1 comma 8, che ha reintrodotto il delitto di oltraggio stabilisce una singolare causa di estinzione del reato collegata al risarcimento del danno. La causa di estinzione è concettualmente incompatibile con i delitti che, come l’oltraggio, rientrano tra quelli contro la pubblica amministrazione.
Ai commi da 40 a 44, l’art. 3 stabilisce che i sindaci possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini per segnalare alle forze di polizia anche locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale. Essendo affidata non alla legge ma a un successivo decreto del Ministro dell’interno la determinazione degli “ambiti operativi” di tali disposizioni, appare urgente la definizione di detto decreto in termini di rigorosa aderenza ai limiti segnati in legge relativamente al carattere delle associazioni e al compito ad esse attribuito. Da ciò dipenderà la riduzione al minimo di allarmi e tensioni nell’applicazione della normativa in questione, anche sotto il profilo dell’aggravio che possa derivarne per gli uffici giudiziari.
Anche in rapporto all’innovazione sancita nei commi 40-44 dell’art. 3, va considerato il comma 32 dello stesso articolo, secondo il quale spetterà al Ministro dell’Interno stabilire “le caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa”, con particolare riferimento alla nebulizzazione di un determinato principio attivo naturale, ovvero all’uso di uno spray al peperoncino. Il rischio da scongiurare è che si favorisca la delinquenza di strada o comunque si indebolisca la prescrizione che le associazioni, di cui al comma 40, debbano essere formate da “cittadini non armati”. Peraltro è da rilevarsi che, stando ai principi affermati dalla giurisprudenza, il porto dello spray potrebbe restare sempre vietato a norma dell’art. 4 della legge 110/1975.
Al Presidente della Repubblica non spetta pronunciarsi e intervenire sull’indirizzo politico e sui contenuti essenziali di questa come di ogni legge approvata dal Parlamento: essi appartengono alla responsabilità esclusiva del governo e della maggioranza parlamentare. Il Presidente della Repubblica non può invece restare indifferente dinanzi a dubbi di irragionevolezza e di insostenibilità che un provvedimento di rilevante complessità ed evidente delicatezza solleva per taluni aspetti, specie sul piano giuridico. Di qui le preoccupazioni e sollecitazioni contenute nella mia presente lettera, e rivolte all’attenzione di questo governo nello stesso spirito in cui mi sono rivolto - dinanzi a distorsioni nel modo di legiferare, ad esempio in materia di bilancio dello Stato - al precedente governo, e nello stesso spirito in cui auspico ne tengano conto tutte le forze politiche che si candidino a governare il paese.

venerdì 3 luglio 2009

Il risultato elettorale di Bompietro

Ecco l'elenco con tutte le liste e i simboli nell’ordine come riportati nella scheda elettorale e i candidati alle elezioni amministrative del 6 e 7 giugno 2009 di Bompietro con i relativi voti ricevuti. I candidati elencati in corsivo sono gli eletti al consiglio comunale i cui seggi sono pari a 12; di questi 7 sono attribuiti alla lista collegata al candidato Sindaco risultato eletto e 5 sono attribuiti alla lista il cui candidato a Sindaco ha ottenuto il più alto numero di voti insufficiente per essere eletto. Gli iscritti nelle liste elettorali sono 1819, votanti 1151 (715-436) voti non attribuiti 46; di cui bianche 8 (4-4) e nulle 38 (10-28).
Candidato Sindaco Giuseppe Geraci voti 288; Lista Pippo Geraci Sindaco voti 261; voti di preferenza: Damiano La Tona 46, Leonardo Maurizio Ballarino 07, Armando Patrizio Calabrese 28, Salvatore Dichiara 09, Agnese Maria Di Gangi 13, Carmelo Di Gangi 20, Antonino Di Gioia 06, Calogero D'Ignoti 26, Biagio Federico 13, Antonino Li Pira 08, Sandra Mascellino 20, Carlo Mocera 13. Nessun seggio.
Candidato Sindaco Calogero D'Alberti voti 354; Lista Le ali per Bompietro voti 348; voti di preferenza: Vanessa Lucia Saguto 63, Liborio Ferrara 45, Salvatore Macaluso 37, Simonetta Maruca 33, Lucio Vaccarella 31, Rosario La Tona 29, Leonardo Richiusa 21, Nicolino Giuseppe Fiorino 19, Patrizia Cancellieri 18, Alessandra Giglio 16, Calogero Alaimo 04. Seggi attribuiti 5.
Candidato Sindaco Luciano Di Gangi voti 463; Lista Per Bompietro voti 487; voti di preferenza Pierina Richiusa 62, Rosario Librizzi 58, Giuseppe Di Gangi 47, Daniele Albanese 46, Giosuè Polito 45, Luciano Richiusa 43, Piero Librizzi 39, Francesco Bianco 26, Emilio Librizzi 21, Maria Rita Filì 18, Giovanni Giuliano 19, Giuseppe Antonino Sabatino 18. Seggi attribuiti 7.
Questa risulta per tanto essere la composizione del prossimo consiglio comunale:
Gruppo consiliare Per Bompietro: Pierina Richiusa (Presidente del Consiglio comunale), Rosario Librizzi, Giuseppe Di Gangi, Daniele Albanese, Giosuè Polito (Vice Presidente del Consiglio comunale), Luciano Richiusa, Piero Librizzi. Gruppo consiliare Le ali per Bompietro: Vanessa Lucia Saguto, Liborio Ferrara, Salvatore Macaluso, Simonetta Maruca, Lucio Vaccarella.
La Giunta comunale risulta così composta: Sindaco Lucio Di Gangi; Assessori: Gennaro Franco, Filì Domenico (Vice Sindaco), D’Anna Pier Calogero e Albanese Gioacchino.
Nel corso delle operazioni di voto è risultato che la scheda elettorale non era conforme all'ordine attribuito dal sorteggio. Così la lista numero 1 è diventa la numero 3 e viceversa.