Sentenza 70/2015
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente CRISCUOLO - Redattore SCIARRA
Udienza Pubblica del 10/03/2015 Decisione del 10/03/2015
Deposito del 30/04/2015 Pubblicazione in G. U. 06/05/2015
n. 18
Norme impugnate: Art. 24, c. 25°, del
decreto legge 06/12/2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
c. 1°, della legge 22/12/2011, n. 214.
Massime:
Atti decisi: ordd. 35, 158, 159 e
192/2014
SENTENZA N. 70
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO,
Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS,
Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge
6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossi dal Tribunale ordinario
di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, dalla Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna,
con due ordinanze del 13 maggio 2014, e dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la
Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014,
rispettivamente iscritte ai nn. 35, 158, 159 e 192 del registro ordinanze 2014
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 14, 41 e 46, prima
serie speciale, dell' anno 2014.
Visti
gli atti di costituzione di C.G. e dell’Istituto nazionale della previdenza
sociale (INPS), nonché gli atti di intervento di T.G. e del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito
nell'udienza pubblica del 10 marzo 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi
gli avvocati Riccardo Troiano per C.G., Luigi Caliulo e Filippo Mangiapane per
l’INPS e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
1.–
Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre
2013, (r.o. n. 35 del 2014), la
Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna,
con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e r.o. n. 159 del 2014), e la Corte dei Conti, sezione
giurisdizionale per la
Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014, (r.o. n.
192 del 2014) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del comma
25 dell’art. 24, del decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici),
convertito, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1 della legge 22 dicembre
2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della
contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013,
esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre
volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento», in
riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117,
primo comma, della Costituzione.
Il
Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, premette di essere stato adito
per la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a
corrispondere al ricorrente i ratei di pensione maturati e non percepiti nel
biennio 2012-2013, maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria fino
all’effettivo soddisfo, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale
dell’azzeramento della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre
volte il trattamento minimo INPS introdotto dalla norma censurata.
Il
giudice rimettente rileva che la discrezionalità di cui gode il legislatore
nella scelta del meccanismo perequativo diretto all’adeguamento delle pensioni,
fondata sul disposto degli artt. 36 e 38 Cost., ha trovato il proprio
meccanismo attuativo nel sistema di perequazione automatica dei trattamenti
pensionistici, introdotto dall’art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153
(Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza
sociale). Aggiunge che il blocco introdotto dalla normativa censurata reitera,
rendendola più gravosa, la misura di interruzione del sistema perequativo già a
suo tempo sancita dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del
Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire
l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro
e previdenza sociale), che era limitata ai soli trattamenti pensionistici
eccedenti otto volte il trattamento minimo INPS, nonostante il monito rivolto
al legislatore dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 316 del 2010, teso
a rimuovere il rischio della frequente reiterazione di misure volte a
paralizzare il meccanismo perequativo.
Con
la misura censurata, secondo il rimettente, si sarebbe violato l’invito della
Corte, mediante azzeramento della perequazione per i trattamenti pensionistici
di più basso importo, per due anni consecutivi e senza alcuna successiva
possibilità di recupero.
Il
giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale (in particolare la sentenza
n. 223 del 2012) secondo cui la gravità della situazione economica, che lo
Stato deve affrontare, può giustificare anche il ricorso a strumenti
eccezionali, con la finalità di contemperare il soddisfacimento degli interessi
finanziari con la garanzia dei servizi e dei diritti dei cittadini, nel
rispetto del principio fondamentale di eguaglianza.
Deduce,
quindi, la violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., poiché l’assenza di
rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione,
menomandone l’adeguatezza e dell’art. 36, primo comma, Cost., in quanto il
blocco della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità tra la
pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di
lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa.
Sostiene,
altresì, la lesione del combinato disposto degli artt. 36, 38 e 3 Cost., poiché
la mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione
e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale,
altererebbe il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una
irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati. Deduce,
inoltre, la violazione del principio di universalità dell’imposizione di cui
all’art. 53 Cost. e di quello di non discriminazione ai fini dell’imposizione e
di parità di prelievo a parità di presupposto di imposta di cui al combinato
disposto degli artt. 3, 23 e 53 Cost., poiché, indipendentemente dal nomen
iuris utilizzato, la misura adottata si configurerebbe quale prestazione
patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in quanto doverosa, non
connessa all’esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e collegata
esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto
economicamente rilevante.
2.–
La Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna, che ha sollevato con
due distinte ordinanze la questione di legittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riferisce che il
ricorrente nel giudizio principale lamentava la mancata rivalutazione
automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione della norma
oggetto di censura, per effetto della esclusione del meccanismo di perequazione
per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS.
Evidenzia,
alla luce della giurisprudenza costituzionale, l’illegittimità delle frequenti
reiterazioni di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo,
sottolineando, altresì, il carattere peggiorativo della norma censurata
rispetto all’art.1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, così determinando il
blocco dell’adeguamento dei trattamenti superiori a tre volte, anziché a otto
volte, rispetto al trattamento minimo INPS, avuto anche riguardo alla vicinanza
temporale rispetto all’ultimo azzeramento attuato, nonché alla mancata
previsione di un meccanismo di recupero.
In
particolare, secondo il giudice a quo, il vizio della norma censurata emerge
ove si consideri che la natura di retribuzione differita delle pensioni
ordinarie è stata ormai definitivamente riconosciuta dalla Corte costituzionale
(viene richiamata la sentenza n. 116 del 2013). Il maggior prelievo tributario
rispetto ad altre categorie risulta, con più evidenza, discriminatorio, poiché
grava su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni
lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa,
rispetto ai quali non risulta più possibile ridisegnare sul piano
sinallagmatico il rapporto di lavoro, con conseguente lesione degli artt. 3 e
53 Cost.
Ad
avviso della Corte rimettente, il mancato adeguamento delle retribuzioni
equivale a una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché
il blocco sia formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di
recupero, con conseguente violazione degli artt. 3, 53, 36 e 38 Cost. Tale
blocco incide sui pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed
impossibilità di adeguamento del reddito, come evidenziato dalla Corte
costituzionale, secondo la quale i redditi derivanti dai trattamenti
pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris
generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini
dell’osservanza dell’art. 53 Cost., che non consente trattamenti in peius di
determinate categorie di redditi da lavoro (viene richiamata ancora la sentenza
n. 116 del 2013).
La Corte dei conti aggiunge che
l’introduzione di un’imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale,
viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta
economicamente rilevante e che, quindi, il blocco della perequazione si traduce
in una lesione del combinato disposto di cui agli artt. 3 e 53 Cost., in quanto
la norma censurata limita i destinatari della stessa soltanto ad una “platea di
soggetti passivi”, cioè ai percettori del trattamento pensionistico, in
violazione del principio della universalità della imposizione.
Essa
sottolinea, inoltre, come l’intervento legislativo evidenzi il carattere sempre
più strutturale del meccanismo di azzeramento della rivalutazione e non quello
di misura eccezionale, non reiterabile, senza osservare il monito espresso
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2010, con riguardo ai
gravi rischi di irragionevolezza e violazione della proporzionalità derivanti
dalla frequente reiterazione delle misure volte a paralizzare il meccanismo di
perequazione automatica, in quanto le pensioni, anche di maggior consistenza,
potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del
potere di acquisto della moneta.
Deduce,
poi, come la norma censurata si presenti lesiva anche del principio di
affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3
Cost., giacché i pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa
le proprie disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le
aspettative di vita di questi ultimi .
Sostiene,
quindi, la palese irragionevolezza del provvedimento censurato e
l’irrazionalità dello stesso per eccedenza del mezzo rispetto al fine, dovendo
provvedersi ad esigenze quali la «contingente situazione finanziaria»
richiamata dal legislatore mediante la fiscalità ordinaria, secondo il disposto
di cui all’art. 53 Cost.
Invoca,
infine, sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., quale parametro
interposto, la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, richiamando poi il principio della certezza del diritto,
quale patrimonio comune degli Stati contraenti, nonché il diritto
dell’individuo alla libertà e alla sicurezza di cui all’art. 6 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il diritto di non discriminazione
che include anche quella fondata sul patrimonio (art. 21), il diritto degli
anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), il diritto
alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art.
33) ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi
sociali di cui all’art. 34 della medesima Carta.
3.–
La Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria,
premette che la ricorrente nel giudizio principale era titolare di pensione
diretta e di pensione indiretta del Fondo dipendenti INPS e che l’importo
complessivo dei due trattamenti era stato mantenuto fermo anche negli anni 2012
e 2013, in
applicazione della norma impugnata, aggiungendo che la parte aveva agito per la
condanna dell’INPS al pagamento delle quote di trattamento non corrisposte,
previo promovimento della questione di legittimità costituzionale della norma
censurata.
Nel
merito, osserva la Corte
rimettente che, pur avendo la
Corte costituzionale ammesso, in linea di principio, la
compatibilità costituzionale di disposizioni legislative che incidano su
situazioni soggettive attinenti ai rapporti di durata, facendosi carico di
esigenze di contenimento della spesa pubblica, la stessa ha, al contempo,
invitato il legislatore a salvaguardare il principio di ragionevolezza nelle
manovre economiche adottate, a tutela degli interessi dei cittadini (viene
richiamata la sentenza n. 316 del 2010).
Nel
caso del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito,
secondo il giudice a quo difetterebbero i presupposti segnalati dalla
giurisprudenza costituzionale, atteso che, in primo luogo, l’intervento non
avrebbe il carattere realmente temporaneo voluto dal giudice delle leggi,
perché esteso per un arco temporale di due anni. Inoltre, esso non
riguarderebbe soltanto le pensioni più alte, incidendo, invece, sui trattamenti
pensionistici di più basso importo, superiori ad euro 1.405,05 lordi per il
2012 ed a euro 1.441,56 lordi per il 2013. Per tali trattamenti, secondo la Corte rimettente, la
pressante esigenza di rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario,
che garantisce il soddisfacimento degli stessi bisogni alimentari, sarebbe
irrimediabilmente frustrata.
In
particolare, lo sganciamento dai meccanismi di adeguamento automatico dei
trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo INPS, per un tempo
considerevole, minerebbe il sistema di adeguamento costituzionalmente
rilevante, con violazione dei principi di cui agli artt. 36 e 38 Cost.
Come
ricordato dal giudice rimettente, la
Corte costituzionale ha affermato (viene citata la sentenza
n. 497 del 1988) che la protezione così garantita ai lavoratori postula
requisiti di effettività, tanto più che essa si collega alla tutela dei diritti
fondamentali della persona sanciti dall’art. 2 Cost., mentre il perdurante
necessario rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza delle pensioni
impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di
bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità
finanziarie, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed
effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo
della vita (il richiamo è alla sentenza n. 30 del 2004).
Il
Collegio rimettente osserva, quindi, che la Corte costituzionale, pur avendo riconosciuto,
con la sentenza n. 316 del 2010, la legittimità di temporanee sospensioni della
perequazione, anche se limitate alle pensioni di importo più elevato, ha, al
contempo, precisato che la ragionevolezza complessiva del sistema dovrà essere
apprezzata nel quadro del contemperamento di interessi di rango costituzionale,
alla luce dell’art. 3 Cost. Con ciò si intende evitare che una generalizzata
esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e
comunque valido motivo per determinare la compromissione «di diritti maturati o
la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche
collettivi» (viene citata la sentenza n. 92 del 2013).
Deduce,
poi, il contrasto con gli artt. 3, 23, 53 Cost., sollevando d’ufficio la
relativa questione, per essere stato imposto con la norma censurata un
sacrificio cospicuo ad una sola categoria di cittadini, incorrendo nella
violazione del principio di eguaglianza, a causa della disparità di trattamento
che può essere ravvisata nella differente previsione di prestazioni
patrimoniali a carico di soggetti titolari di redditi analoghi.
4.–
Si è costituito in giudizio (r.o. n. 35 del 2014) C.G., ricorrente nel giudizio
principale pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro,
instando per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione
legislativa censurata. Sostiene, in particolare, il pregiudizio per
l’adeguatezza delle prestazioni previdenziali, la quale imporrebbe la costante
perequazione della pensione al mutamento dei valori monetari. Aggiunge il
difetto di qualsivoglia modalità di recupero della somma oggetto di blocco
della perequazione per il biennio 2012-2013 e la conseguente violazione degli
artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il criterio
adottato sarebbe irragionevole, lesivo del principio di proporzionalità tra
pensione e retribuzione, nonché del principio di adeguatezza di cui all’art. 38
Cost.
5.–
Si è, altresì, costituito in tutti i giudizi, (r.o. n.n. 35, 158, 159 e 192 del
2014), l’INPS, chiedendo che siano dichiarate manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate, alla luce della
giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta alla discrezionalità del
legislatore, in conformità a un ragionevole bilanciamento dei valori
costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico
alla stregua delle risorse disponibili, fatta salva la garanzia di salvaguardia
delle esigenze minime di protezione della persona.
L’Istituto
osserva, al riguardo, che la norma censurata si limita a sospendere
l’operatività del meccanismo rivalutativo esistente per un breve orizzonte
temporale e a salvaguardare le posizioni più deboli sotto il profilo economico,
evidenziando, altresì, come la
Corte, con la sentenza n. 316 del 2010, abbia già deciso,
respingendola, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 19, della legge n. 247 del 2007 ed aggiungendo che la mancata
perequazione per un tempo limitato della pensione non incide sulla sua
adeguatezza, in particolare per le pensioni di importo più elevato.
6.–
Ha proposto intervento ad adiuvandum T.G., premettendo di essere iscritto al
Fondo pensioni del personale delle Ferrovie dello Stato spa, di non aver
goduto, in forza dell’applicazione della norma di cui al comma 25 dell’art. 24,
del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, degli aumenti di perequazione
automatica per la parte di pensione superiore a tre volte il trattamento minimo
e di aver depositato analogo ricorso per le proprie pretese pensionistiche
dinanzi alla sezione giurisdizionale del Tribunale amministrativo regionale del
Lazio, allo scopo di sentir dichiarato il proprio diritto alla perequazione
automatica.
Assume,
in particolare, a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, il
difetto di tutela per chi non abbia partecipato al giudizio principale, ma
versi nelle medesime condizioni delle parti e, nel merito, la violazione degli
artt. 38, secondo comma, 36, primo comma, e 3 Cost., nonché, infine, dell’art.
53 e del combinato disposto degli artt. 2, 23 e 53 Cost.
7.–
E’ intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per
l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della questione
sollevata.
La
difesa dello Stato eccepisce preliminarmente il difetto della previa domanda
amministrativa, presupposto dell’azione, la cui mancanza renderebbe la domanda
improponibile e adduce l’esistenza di una temporanea carenza di giurisdizione,
rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio.
L’Avvocatura
generale rileva, in ogni caso, la manifesta infondatezza della questione
riguardo a tutti i parametri segnalati e richiama la giurisprudenza
costituzionale, nonché il principio dalla stessa espresso, secondo cui la
mancata perequazione della pensione per un periodo contenuto non incide
sull’adeguatezza del trattamento pensionistico.
8.–
All’udienza pubblica, le parti costituite hanno insistito per l’accoglimento
delle conclusioni formulate nelle difese scritte.
1.–
Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre
2013 (r.o. n. 35 del 2014), la
Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia–Romagna,
con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e n. 159 del 2014) e la Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la
Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014 (r.o. n.
192 del 2014), dubitano della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art.
24, decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214,
nella parte in cui, per gli anni 2012 e 2013, limita la rivalutazione monetaria
dei trattamenti pensionistici nella misura del 100 per cento, esclusivamente
alle pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo
INPS, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38,
secondo comma, 53 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in
relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Tutti
i giudici rimettenti ritengono che il comma 25 dell’art. 24 sarebbe
costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e
38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione, violando i
principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si
porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza,
causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei
pensionati.
La
norma censurata recherebbe anche un vulnus agli artt. 2, 23 e 53 Cost., poiché
la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura
sostanzialmente tributaria, in violazione del principio dell’universalità
dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di
una sola categoria di contribuenti.
La
sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia -
Romagna censura, infine, la predetta disposizione, anche con riferimento
all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli
artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007.
2.–
I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri
costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti.
Deve,
pertanto, esser disposta la riunione dei giudizi al fine di un’unica pronuncia
(ex plurimis, sentenza n. 16 del 2015, ordinanza n. 164 del 2014).
Nel
giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha
spiegato intervento ad adiuvandum T.G., che non è parte nel procedimento
principale, assumendo di aver proposto analogo ricorso dinanzi alla Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, allo scopo di sentir riconosciuto
il proprio diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico,
per gli anni 2012 e 2013, negato dall’INPS.
Secondo
la costante giurisprudenza di questa Corte (per tutte, sentenza n. 216 del
2014), possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un
interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o
dalle norme oggetto di censura.
La
circostanza che l’istante sia parte in un giudizio diverso da quello oggetto
dell'ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata analoga questione
di legittimità costituzionale, non è sufficiente a rendere ammissibile
l'intervento (ex plurimis, ordinanza n. 150 del 2012).
Conseguentemente,
poiché T.G. non è stato parte del giudizio principale nel corso del quale è
stata sollevata la questione di legittimità costituzionale oggetto
dell'ordinanza iscritta al n. 35 del reg. ord. 2014, né risulta essere titolare
di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio, l’intervento dallo stesso proposto va
dichiarato inammissibile.
3.–
La Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna,
nelle due ordinanze di rimessione, dubita della legittimità costituzionale del
comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito dalla legge n.
214 del 2011, in
riferimento, fra l’altro all’art. 117, primo comma, Cost. e invoca
genericamente, quale parametro interposto, la CEDU, per poi richiamare, più specificamente, una
serie di disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea.
In
particolare, sono evocati, oltre al principio della certezza del diritto quale
«patrimonio comune agli Stati contraenti», anche « gli altri diritti garantiti
dalla Carta: il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6),
il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul
“patrimonio”, (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita
dignitosa ed indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia
sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle
prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)».
La
questione, come prospettata, è inammissibile.
Va
preliminarmente rilevato che questa Corte ritiene configurarsi un’ipotesi di
inammissibilità della questione, qualora il giudice non fornisca una
motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza della stessa, limitandosi
a evocarne i parametri costituzionali, senza argomentare in modo sufficiente in
ordine alla loro violazione (ex plurimis, ordinanza n. 36 del 2015).
In
tale ipotesi, il difetto nell’esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la
norma censurata e i parametri costituzionali evocati inibisce lo scrutinio nel
merito delle questioni medesime (fra le altre, ordinanza n. 158 del 2011), con
conseguente inammissibilità delle stesse.
Nel
caso di specie, la Corte
rimettente si limita a richiamare l’art. 117, primo comma, Cost., per
violazione della CEDU «come interpretata dalla Corte di Strasburgo»
senza
addurre alcun elemento a sostegno di tale asserito vulnus, in particolare con
riferimento alle modalità di incidenza della norma oggetto di impugnazione sul
parametro costituzionale evocato.
Inoltre
il richiamo alla CEDU si rivela, nella sostanza, erroneo, atteso che esso
risulta affiancato dal riferimento a disposizioni normative riconducibili alla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quest’ultima fonte, come
risulta dall’art. 6, comma 1 del Trattato sull’Unione europea, come modificato
dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso
esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130, ha lo stesso valore
giuridico dei trattati.
Pertanto,
l’esame dell’ordinanza di rimessione non consente di evincere in qual modo le
norme della CEDU siano compromesse, per effetto dell’applicazione della
disposizione oggetto di censura.
Una
tale carenza argomentativa costituisce motivo di inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale, in quanto preclusiva della valutazione
della fondatezza.
Il
giudice a quo non fornisce sufficienti elementi che consentano di vagliare le
modalità di incidenza della norma censurata sul parametro genericamente
invocato ed omette di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli
di tale incidenza, richiamando erroneamente disposizioni normative afferenti al
diritto primario dell’Unione europea.
4.–
La questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53
Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, non
è fondata.
Tutte
le ordinanze di rimessione affermano che, nel caso di specie, indipendentemente
dal nomen iuris utilizzato, la misura di azzeramento della rivalutazione
automatica per gli anni 2012 e 2013, relativa ai trattamenti pensionistici
superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, configurerebbe una
prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di
universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto
posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Nell’imporre alle parti
di concorrere alla spesa pubblica non in ragione della propria capacità
contributiva, essa violerebbe il principio di eguaglianza.
I rimettenti richiamano, in
particolare, le decisioni n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012 nella parte in cui
si afferma che la
Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con
criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di
imposizione tributaria, ma esige un indefettibile raccordo con la capacità
contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività,
come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di
eguaglianza (in tal senso, fra le più recenti, sentenza n. 10 del 2015). Ciò si
collega al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali che di fatto
limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di
solidarietà politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della
Costituzione (ordinanza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n.
223 del 2012).
L’azzeramento
della perequazione automatica oggetto di censura, tuttavia, sfugge ai canoni
della prestazione patrimoniale di natura tributaria, atteso che esso non dà
luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto
autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario.
La
giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 219 e n. 154 del 2014)
ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie
tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via
prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del
soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto
sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante
e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire
pubbliche spese.
Un
tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche
spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico
indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve
esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le
prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965
e n. 45 del 1964).
Il
comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, che dispone
per un biennio il blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti
pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, non riveste,
quindi, natura tributaria, in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo
a carico del titolare di un trattamento pensionistico.
In
base ai criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni
patrimoniali, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo
della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il
presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre,
viene a mancare il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al
bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via
indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un
risparmio di spesa.
Il
difetto dei requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni
patrimoniali imposte, determina, quindi, la non fondatezza delle censure
sollevate in riferimento al mancato rispetto dei principi di progressività e di
capacità contributiva.
5.–
La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost. è fondata.
La
perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al
mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio
1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di
pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di
fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il
loro carattere continuativo.
Per
perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la
disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.
Con
l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti
pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via
generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime
dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale
gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato
dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori
dell’industria.
Con
l’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante
«Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e
pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla
cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione
automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio
dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati.
Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche
salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello
medio del tenore di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che
ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in
relazione all’andamento dell’economia.
Il
meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici governato
dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza
pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i
trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta,
che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di
inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione
delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in funzione
dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico
dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione automatica
opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale
all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo.
Tuttavia,
l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria
2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di aumento della
perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero soltanto per le
fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento
minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da
tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per
i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa
impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a conferma di
un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad esempio,
l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti
in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1,
della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il triennio 2008-2010, una
perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il
trattamento minimo INPS.
In
conclusione, la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro
storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano
integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche
o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni.
6.–
Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte
discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni
orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con
variabili esigenze di contenimento della spesa.
L’art.
2 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di
previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali)
previde che, in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e,
comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni
disposizione di legge, di regolamento o di accordi collettivi, che introducesse
aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali,
pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti
del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle
rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia,
con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante
misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego,
nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti della
disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della
perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla
stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di
inflazione programmata.
In
seguito, l’art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi
correttivi di finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una
tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed
inflazione reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2
della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente
previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del
1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della
dinamica perequativa.
Dopo
l’entrata in vigore del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13
della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione
della finanza pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione
automatica, per l’anno 1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con
ordinanza n. 256 del 2001,
ha limitato il proprio campo di applicazione ai soli
trattamenti di importo medio - alto, superiori a cinque volte il trattamento
minimo.
Il
blocco, introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del
2011, come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1,
comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del
Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per
favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia
di lavoro e previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo
della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a otto
volte il trattamento minimo INPS.
Si
trattava – come si evince dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato
dal Consiglio dei ministri il 13 ottobre 2007 – di una misura finalizzata a
concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di
anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento
pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio
2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e
deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla
previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti
di previdenza ed assistenza obbligatoria).
L’azzeramento
della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n.
247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che
ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia
questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il
legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di
proporzionalità e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo
l’azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo
elevato (superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS).
Al
contempo, essa ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a
tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di
misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili
principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si afferma, infatti, che «[…] le
pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere
sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della
moneta».
7.–
L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di
censura nel presente giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”
(manovra denominata “salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della
contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art.
34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e
2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a
tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento.
Per
effetto del dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al 100 per cento
sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le
pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna
rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le
pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti.
Tale
meccanismo si discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma
4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato
dall’art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il
riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a
norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non
discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra
fasce di importo.
Secondo
la normativa antecedente, infatti, la percentuale di aumento si applicava
sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni
per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo comprese fra il doppio ed
il triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento.
Per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo la
percentuale era ridotta al 75 per cento.
Le
modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere
sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse
trovano un unico correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di
importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale
limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante,
l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del
predetto limite maggiorato.
La
norma censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni
rivolte al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati,
Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha
determinato la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva
l’azzeramento della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di
importo superiore a due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro
946,00. Il Ministro chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non
confluiva nella riforma pensionistica, ma era da intendersi quale
«provvedimento da emergenza finanziaria».
La
disposizione censurata ha formato oggetto di un’interrogazione parlamentare
(Senato della Repubblica, seduta n. 93, interrogazione presentata l’8 agosto
2013, n. 3 – 00321) rimasta inevasa, in cui si chiedeva al Governo se
intendesse promuovere la revisione del provvedimento, alla luce della
giurisprudenza costituzionale.
Dall’excursus
storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo
significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una
durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo
meno elevato.
Il
provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione
ad esso successiva.
L’art.
1, comma 483, lettera e), della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27
dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il
triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di
perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il
meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con
l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento
minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le
percentuali sono state, peraltro, parzialmente modificate.
Nel
triennio in oggetto la perequazione si applica nella misura del 100 per cento
per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento
minimo, del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il
trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del
75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque
volte il trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque
volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per
il 2014 il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di
importo superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna
dunque a proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di
progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e
della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza
conferma la singolarità della norma oggetto di censura.
8.–
Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la
perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura
tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di
cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente
a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36
Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai
trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre,
sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013).
Per
le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità
rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della
perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte
discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in
concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento
deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e
38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in
ragione delle finalità che perseguono.
La
ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un
progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo
comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari
dei trattamenti pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza,
configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla
quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e
nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.),
questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con
l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le
altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri
citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la
speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di
trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo
il dettato dell’art. 36 Cost.
Non
a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura
sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una
particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che
proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del
collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo,
in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò
comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e
l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di
discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex
plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del
1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno,
dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione
del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza
n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).
Il
legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali
deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla
stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia
irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n.
316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile
scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il
legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del
1993).
Al
legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la
perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così
è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in
maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto
indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del
sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque,
all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma,
Cost.
Pertanto,
il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata
in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo
comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue
scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.
9.–
Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo
perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo
INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007),
questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente
nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione
dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008,
dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base
all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo
dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle
pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2,
della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010).
In
quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i
parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le
pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo
piuttosto elevato, presentavano «margini di resistenza all’erosione determinata
dal fenomeno inflattivo». L’esigenza di una rivalutazione costante del
correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante.
Questa
Corte ha ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il
blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente
sulle pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava
«un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a
quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più
modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da
questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a
mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore
in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto,
a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più
rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il
principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di
situazioni disomogenee.
La
norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese
irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa
dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa
delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al
dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla
soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di
importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza»,
secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione.
La
richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo
indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di
misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con
gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché
risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo
della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto
delle pensioni.
Questa
Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di
dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole
e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza
essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (sentenza
n. 349 del 1985).
Deve
rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della
perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche
se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive
rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario,
bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato
intaccato.
10.–
La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se
vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento
pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di
ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di
acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle
aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla
cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).
Non
è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza
n. 316 del 2010.
Si
profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il
dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più
recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993).
Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto
bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa,
nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso
possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile
l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993).
La
disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta
nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a
richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che
emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze
finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si
effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione
(legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione
tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3,
della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza
pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale
«puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.).
L’interesse
dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti
previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle
somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una
prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato,
risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non
illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali
connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali:
la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione
differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo
comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se
non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3,
secondo comma, Cost.
La
norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini
esposti.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i
giudizi,
1)
dichiara inammissibile l’intervento di T.G.;
2)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214,
nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione
finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo
il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.
448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti
pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo
INPS, nella misura del 100 per cento»;
3)
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24,
comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento
agli artt. 2, 3, 23 e 53, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Palermo, sezione lavoro, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna
e dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria,
con le ordinanze indicate in epigrafe;
4)
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24,
comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento
all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna,
con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 10 marzo 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI
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