lunedì 11 agosto 2008

La guerra in Georgia?

Petrolio nel Caucaso tra pace e guerra
Nicola Melloni (Università di Oxford )
[31 Maggio 2005]
Pochi giorni fa è stata inaugurata la molto attesa e molto temuta pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc). Lunga 1770 kilometri. Costato 3,6 miliardi di dollari e capace di trasportare 1 milione di barili al giorno dal Mar Caspio al Mediterraneo, l’oleodotto attraversa tre paesi (Azerbaijan, Georgia e Turchia) in una della aree più instabili e pericolose del mondo: il Caucaso. Il progetto, fortemente voluto dagli Stati Uniti è stato realizzato con fondi internazionali (dalla Ebrd, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, all’Ifc, una consociata della Banca mondiale) e vede riunite in un consorzio molte tra le più grandi imprese petrolifere mondiali (tra cui l’Eni), guidate dalla British Petroleum (Bp).
La realizzazione dell’oleodotto va inquadrata e valutata in termini geopolitici, assai più che economici. Le riserve petrolifere del Mar Caspio sono seconde solo a quelle del Golfo Persico (ma c’è chi dice che potenzialmente potrebbero essere superiori), ma fino a questo momento era impossibile trasportare il greggio verso occidente senza passare per la Russia (o per l’Iran). Il potere di interdizione di Mosca era quindi grandissimo. Questo poteva andare bene fino a ché ci fosse stato un “nostro uomo” al Cremlino (Eltsin, in questo caso), ma con le rinate pretese imperiali della Russia di Putin, bisognava trovare un’altra soluzione. Le guerre cecene sono state funzionali come non mai agli interessi americani: Mosca non è in grado di controllare il proprio territorio nel Caucaso e quindi le pipelines russe non sono sicure.
Peccato che la situazione nelle altre repubbliche caucasiche non fosse propriamente migliore. La regione è dilaniata da guerre intestine, alleanze strategiche, banditismo e dittature. Tre piccoli stati (Azerbaijan, Armenia, Georgia), tre repubbliche che non esistono su alcuna cartina geografica ufficialmente riconosciuta (Nagorno-Karabakh, Abkhazia e Ossezia del Sud), due vicini grandi e scomodi (Russia e Turchia): il panorama non è di facile comprensione. Azerbaijan e Armenia sono in stato di guerra (calda o fredda, a seconda dei momenti) da oltre 15 anni, per via del Nagorno Karabakh, provincia azera a maggioranza armena; il confine tra Armenia e Turchia è chiuso, data anche la storica ostilità turca a riconoscere i diritti delle minoranze, tra cui quella armena, il cui genocidio, all’inizio dello scorso secolo, anticipava la feroce repressione contro i curdi. La Russia sostiene e foraggia le due repubbliche ribelli della Georgia (Abkhazia e Ossezia del Sud), in cui mantiene basi militari per non perdere tutto il proprio peso nella regione. In Azerbaijan da poco il potere è passato dalle mani di Aliev padre a quelle di Aliev figlio, ma visto che il paese è il più ricco produttore di petrolio della regione, gli Stati Uniti lo sostengono, fedeli all’idea che se “Parigi val bene una messa”, il petrolio val bene una dittatura. Anche i Turchi sono schierati di conseguenza, mentre la Russia appoggia, anche se con meno enfasi, l’Armenia.
L’oleodotto, ovviamente, gira attorno all’Armenia, al Nagorno Karabakh e alle province ribelli della Georgia. Proprio in quest’ultimo paese, che pur orientato verso Occidente adottava con Shevarnadze la politica dei due forni, l’anno scorso si è svolta la cosiddetta rivoluzione delle rose, che ha portato stabilmente Tblisi in zona americana, e dove ora la polizia è addestrata dall’esercito americano su come difendere le pipeline. Esercito americano che, presente sul territorio, potrebbe pure difendere le installazioni da sé, qualora se ne presentasse la necessità. La visita di Bush di poche settimane fa mirava esattamente a questo. Ora l’amministrazione americana ha spostato le sue attenzioni sull’Azerbaijan per ottenere prerogative similari anche in quel paese.
Tutto questo non può che acuire la tensione nel Caucaso. Inoltre, a sorpresa, poche settimane fa anche il Kazakhistan ha deciso di unirsi al gioco di potenze nella regione, dichiarando di voler immettere il suo petrolio (è il secondo produttore dell’area post-sovietica dopo la Russia) nel BTC, ancora una volta a scapito delle pipeline russe che venivano utilizzate fino ad ora.
Insomma, a Mosca si vive la sindrome dell’accerchiamento. Con i fondi del petrolio si rafforzerà la dittatura di Aliev in Azerbaijan, che forte dell’appoggio incondizionato dell’Occidente potrebbe anche scegliere di cercare di chiudere i conti con l’Armenia. Saakashvili ed il governo georgiano sembrano decisi a fare lo stesso con le due repubbliche ribelli, alimentando la tensione nell’area. Alle spalle di tutti la Turchia cerca di rafforzare il suo progetto di egemonia sul Caucaso, sfruttando le incertezze di Mosca ed il supporto americano. L’Europa ha scelto, sottovoce, di prendere posizione a fianco degli Stati Uniti. British Petroluem (e di conseguenza il governo inglese) è, come si è ricordato, la capofila dell’impegno europeo sulla rotta del petrolio, spalleggiata sia da Eni che da Elf (Francia). La scelta, una volta di più, è miope di corto-raggio: da un lato si frena il processo di adesione della Turchia alla Ue, mentre dall’altro la si incoraggia nel suo progetto egemonico nel Caucaso e di repressione e sfruttamento del popolo curdo (la pipeline passa per un largo tratto sul Kurdistan turco, senza che quella popolazione ne goda dei discutibili frutti). Da un lato si dichiara la democrazia come un principio irrinunciabile, dall’altro si finanzia un regime corrotto e dittatoriale come quello azero. Da un lato, soprattutto, si vorrebbe provare a rendersi più indipendenti dagli Stati Uniti, dall’altro si isola la Russia e ci si prepara a diventare dipendenti dalla politica e dalla presenza americana anche per il petrolio che viene dall’Est.
Per l’oro nero si è sempre trafficato, spesso ucciso, si è comunque sempre cercato di sfruttare i paesi produttori, finanziando dittature ricche dei loro proventi ma che lasciassero sempre e comunque la fetta più sostanziosa alla rapacità occidentale, mentre le popolazioni locali sopravvivono nella miseria. Il Btc non fa eccezione.

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