giovedì 19 novembre 2009

E continuano a chiamarlo sport!

La notizia dell’anno, la notizia che non avremmo mai voluto sentire è che il calcio è morto! Il calcio è morto perché non è più uno sport. Il calcio non è più uno sport perché di esso non ha più neanche l’ultimo valore che gli era rimasto: la lealtà. Dopo avere visto la partita Francia Irlanda del Nord non ho più dubbi. L’arbitro non poteva non vedere e come lui anche il guardialinee ottimamente piazzato. Che vergogna! Che tristezza! Ma a chi importa della vergogna o della tristezza? Non importa proprio a nessuno perché il giuoco del calcio è nato con l’arbitro che decide e così deve rimanere. Giusto, ma quando nacque il calcio i calciatori camminavano! Per far rivedere sullo schermo gigante dello stadio il fallo di mano commesso da Henry sarebbero bastati 10 secondi e lo stadio avrebbe applaudito l’arbitro che rimetteva la partita sui canoni della regolarità. Ma va bene così! Tanto lo scopo del calcio è fare soldi! Li devono fare i Presidenti, li devono fare le società, li devono fare gli atleti e soprattutto li devono fare quelli che il calcio lo comandano. Ma se è diventato tutto un affare economico perché continuare a chiamarlo sport e non business. Quello sport che era un fenomeno sociale che coinvolgeva le masse, che ha dato la possibilità di riscatto sociale a quanti sapevano benissimo giocare a calcio pur nella sfortuna di nascere in contesti difficili, quello sport insegnato nelle scuole in cui gli educatori sportivi parlano di lealtà, di correttezza, di serietà, di onestà, ieri è stato umiliato e mortificato e con esso sono state irrimediabilmente sconfitte anche tutte queste persone. Tutti, grandi e piccoli, appassionati e sostenitori, praticanti e curiosi in ogni parte del mondo, hanno visto cos’è il calcio: slealtà, disonestà, scorrettezza, immoralità. E l’irregolarità di questo sport continuerà a protrarsi fino alla conclusione dei mondiali, perché lì in Sud Africa non doveva esserci la francia ma l’Irlanda del Nord. A meno che l’onestà del campo non avrebbe detto diversamente. Troppi interessi per non essere in Sud Africa?

venerdì 4 settembre 2009

IL CIELO SI È CAPOVOLTO

Lunedì, 04 Settembre 2006
È successo tutto in un maledettissimo giorno uguale a tanti altri. Un giorno senza segnali, senza avvertimenti, un giorno col cielo al suo posto, e non c’era modo di capire che un attimo dopo, si sarebbe capovolto. Quanto ci mettono a dirti che il tempo ti si è ristretto e non hai più garanzie? Pochissimo. Per Giacinto Facchetti, quel giorno era stato fino a quel momento normale. Poi è seguito il silenzio. Lo chiedeva lui, anzi lo chiedeva quella famiglia così incredibilmente bella e unita che aveva intorno, con lui faceva un tutt’uno, erano qualcosa di raro, i Facchetti, tutti avremmo voluto una piccola parte in una famiglia così. Adesso, anche a loro, resta questo. Le immagini di un ragazzo diventato uomo correndo dietro a un pallone, e rimane una grande lezione di vita, perché era un uomo pacato capace di grandi slanci, corretto fino all’inverosimile, per cui nemico acerrimo di tutte le slealtà, fortissimo, integro, figlio della provincia ma abituato a sedersi a qualsiasi tavola. Era un uomo da re e da operai. Era un amico leggendario. Era un eroe da romanzo, Arpino lo sapeva bene. Un romanzo di vita, di classe, di essenzialità.La prima cosa che faceva dopo le partite, era chiamare casa, i suoi figli, e Massimo Moratti. Troppe volte, quando qualcuno scompare, di lui si cercano le solo le cose buone.
Il fatto è che di Giacinto Facchetti puoi dire solo quelle, che di cose cattive non ne trovi. Le malattie sono bastarde. Colpiscono a caso, non interessa se uno è stato buono, cattivo, perfido. Se lascia molto amore o poco. Giacinto lascia senz’altro molto amore, e quindi un infinito dolore, dietro di sé. Ma forse è sempre così. Una cosa è la conseguenza dell’altra. Vengono in mente tante cose. Quando raccontava di suo nonno che aveva l’Unità in tasca, e quando invece parlava del suo oratorio, dove giocava da piccolo. L’attenzione affettuosa, mai abbandonata, con cui si riferiva a Helenio Herrera. I diari del Mago li aveva tenuti lui. L’amicizia profonda, nata che erano due ragazzi, che lo ha legato a Massimo Moratti. Fino all’ultimo, uno c’è stato per l’altro, e l’altro c’era. Credendo in un miracolo, perché tutti ci abiamo creduto. Se c’era un uomo che se lo meritava, quello era Giacinto Facchetti. Ed era talmente forte, talmente integro, che a volte il miracolo sembrava arrivare.La rabbia che lo prendeva quando capiva che ci stavano fregando, e lo facevano da tanto, troppo tempo. La fretta con cui si alzava da tavola, negli alberghi, se c’era una partita in televisione. La chiarezza con cui inquadrava caratterialmente un giocatore. Il suo odio per il fumo, su questo era intransigente. La gentilezza con cui parlava. La lettera che scrisse alla sorella di George Best, lo scorso anno, in ricordo di un campione diversissimo da lui, ma che aveva sempre stimato. E la dignità con cui passò oltre la scomparsa della propria sorella, cancro, anche lei, e invece la felicità del suo primo giorno da nonno. La fermezza che aveva. I suoi occhi, così chiari. L’amicizia che dava e che ci si trovava a dargli. Lunghe ore a parlare, a valutare, a raccontarsi. Storie di calcio e di vita, giorni buoni e cattivi, una tale infinità di giorni insieme da pensare che non sarebbero finiti mai. E poi, mai così. Fino a quel giorno in cui ci ha chiesto silenzio e tutti abbiamo obbedito, stando ad aspettare un miracolo. Quando le cose finiscono, ti chiedi dove vada a finire tutto questo, se in cielo, in un’altra dimensione o in niente. Certo, ti resta nel cuore. Ma in questo momento, per tanti di noi è un cuore spezzato. È andato a pezzi in un giorno maledettamente uguale a tanti altri. Senza segnali, senza avvertimenti, col cielo che se ne stava come sempre al suo posto. Si è capovolto all’improvviso.

Ora come allora Ciao Cipe

Lunedì 4 settembre 2006
Caro Cipe, non sono riuscito a dirti quello che volevo, per paura di farti capire che il tempo era inesorabile e la malattia terribile. Scusami, ma credo che ti debba ringraziare soprattutto per la pazienza che hai sempre avuto con me. Per i tuoi occhi che sorridevano, fino alla fine, ai miei entusiasmi o all’ironia con cui cercavo di superare insieme a te momenti difficili. Pochi giorni fa, pochissimi, mi parlavi con un filo di voce - e con l’espressione di chi ti vuole bene - dell’Inter, proiettando il tuo pensiero in un futuro che andava oltre le nostre povere, ignoranti, possibilità umane. Qualche mese fa ti chiedevo un po’ scherzando un po’ sul serio come mai non riuscivamo ad avere un arbitro amico, tanto da sentirci almeno una volta protetti, e tu, con uno sguardo fra il dolce e il severo, mi rispondesti che questa cosa non potevo chiedertela, non ne eri capace. Fantastico. Non ne era capace la tua grande dignità, non ne era capace la tua naturale onestà, la sportività intatta dal primo giorno che entrasti nell’Inter, con Herrera che ti chiamò Cipelletti, sbagliandosi, e da allora, tutti noi ti chiamiamo Cipe. Dolce, intelligente, coraggioso, riservato, lontano da ogni reazione volgare. Grazie ancora di aver onorato l’Inter, e con lei tutti noi.
Massimo Moratti

mercoledì 29 luglio 2009

La conoscenza del dialetto locale per insegnare. Il test dell’idiozia arriva in Parlamento. Si prepara una stagione buia per il Paese

di Salvatore Parlagreco
Da: SICILIAINFORMAZIONI

Mi trovavo sotto un ombrellone su una splendida spiaggia dell’isola d’Elba, con un libro in mano e l’ebbrezza della felicità che solo quella condizione concede a chi non si pone traguardi irraggiungibili. Accanto, sotto un ombrellone un’anziana signora, anch’essa con un libro in mano, che riconobbi subito, per via della grafica ed il colore, come un libro di Sellerio. Non ricordo che cosa mi fece attaccare bottone, ricordo che le chiesi se il libro che leggeva fosse di Andrea Camilleri. Mi ha sempre incuriosito il successo di Camilleri nelle lande del Nord. Se ho difficoltà io a capire il dialetto siciliano dello scrittore, mi sono sempre detto, come fanno gli altri ad essere innamorati dei suoi romanzi, a gustarli, comprenderne il senso, spesso sorridere.
Avevo appena letto Il Birraio di Preston, scoprendo che si può ridere senza freni, da soli e a letto leggendo un libro. Lo trovavo esilarante ma certi brani mi apparivano proibitivi ai fini della comprensione. Dunque, la mia curiosità era giustificata. La signora, invece che rispondere alla mia domanda, disse di essere una casalinga di Varese, con un sorriso ironico. Avevo accanto lo stereotipo della benpensante borghese nordista piena di paure e con la puzza sotto il naso, piena di pregiudizi verso i terroni. La confessione della signora aumentò il mio desiderio di sapere. Oltre che le ragioni dell’amore nordista per il dialetto siciliano, avrei scoperto come sono veramente le casalinghe di Varese. La signora mi riferì di avere letto tutto Camilleri e di trovarlo delizioso. Quanto alla comprensione, alzò le spalle, come a dire che non era affatto un problema. Non era importante che capisse parola per parola, ma che comprendesse il senso, e lei il senso lo coglieva facilmente. Il dialetto siciliano, grazie a Camilleri, sfondava nei luoghi più inaccessibili, e ne ero compiaciuto.
Fin ad allora mi portavo appresso il rammarico, tutto intellettuale e un poco snob, della scuola siciliana che un millennio fa, dovette cedere la primogenitura del volgare al toscano “a causa” di Dante Alighieri, Petrarca e Boccaccio. Camilleri non ha niente a che vedere con i mostri sacri della lingua italiana, ma la riconquista cominciava proprio da lui. Il dialetto siciliano, trascorso il periodo di grande spolvero, negli anni trenta, legato al successo del cinema di Angelo Musco, si era inabissato, a favore di altri dialetti (o lingue), come il romanesco, per esempio, o il napoletano. Hanno un bel lamentarsi il sottosegretario Castelli ed altri statisti della Lega Nord della prevalenza del romanesco o del napoletano, se non tengono conto di Totò e Alberto Sordi, tanto per fare qualche esempio banale. La lingua viaggia con le gambe degli uomini, non c’è che fare. Tutte queste cose avevo in testa quando ho saputo dell’iniziativa leghista in Parlamento: l’introduzione di un test che attesti la conoscenza delle tradizioni e del dialetto del luogo per i docenti di ogni ordine e grado. Se non sai parlare e scrivere il ligure non puoi insegnare in Liguria.
E’ un modo, nemmeno furbo, per alzare le barriere doganali nei confronti dei docenti meridionali che sono tanti e sparsi per la Penisola a causa del fatto che nel Sud per i giovani che si affacciano nel mondo di lavoro ci sono state, e ci sono, poche alternative all’impiego pubblico: polizia, esercito, scuola eccetera. Ora, a quanto pare, e in piena crisi, mentre infuria la polemica Nord/Sud, i leghisti non hanno trovato di meglio che proporre un altro muro, che non assomiglia a quello alzato, per ragioni di sicurezza, dagli israeliani a Gaza, né alla muraglia statunitense ai confini con il Messico, ma che ha l’effetto di un pugno nello stomaco per chi ancora crede nello spirito di solidarietà e nel buon senso. Avendo conosciuto la casalinga di Varese sono indotto a credere che le provocazioni leghiste non rappresentino affatto un bisogno dei padani, ma questo non mi rassicura per niente perché sospetto che da venti anni a questa parte l’educazione alle paure, agli egoismi sono nate e cresciute insieme con le ampolle del Po’ grazie alle ronde della comunicazione nordista, Lega e no.
La voglia di entrare nelle stanze dei bottoni, legittima, per corrispondere a bisogni inevasi e per “aggiustare” lo Stato spendaccione con i soldi del Nord, ha creato la Padania e rifatto la storia e la geografia del Paese; soprattutto, a causa dell’assenza di altre agenzie educative, ha “costruito” o valorizzato paure, sentimenti dapprima affioranti, imponendoli all’intero Paese. Pretendere la conoscenza delle tradizioni del luogo in cui si insegna, ovviamente, è assolutamente legittima, come conoscere l’inglese se si insegna l’inglese o il latino se si insegna il latino. L’abilitazione all’insegnamento serve proprio a questo scopo. Ma il test dialettale è solo una provocazione, non potrebbe essere affrontato nemmeno dagli aspiranti prof del posto. Autorevoli costituzionalisti hanno, tra l’altro, eccepito che sarebbe contrario alla nostra Carta.Il punto non è però, il favore che il Parlamento concederà all’iniziativa – crediamo, assai modesto – quanto la scelta da parte della Lega di gettare benzina sul fuoco. Lo stato maggiore leghista ha deciso di rilanciare di fronte alle reazioni del Mezzogiorno su alcuni provvedimenti legislativi e alla riproposizione della questione meridionale con largo successo d’opinione. Radicalizzando lo scontro, la Lega ha tutto da guadagnare. Siamo alla vigilia di una stagione politica che potrebbe frammentare il Pdl anzitutto, ma non solo, sulle questioni Nord/Sud. Una stagione in cui la casalinga di Varese è solo una spettatrice: lei continua a comprare Andrea Camilleri e non libri in dialetto lombardo fino a quando nella sua Padania non ci sarà un Camilleri.

domenica 19 luglio 2009

Diciassette anni di silenzio

Da La Repubblica del 19 luglio 2009 di Attilio Bolzoni e Valerio Viviano. Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone e sulla strage di via d'Amelio accusa i servizi e lo Stato. Riina sul delitto Borsellino "L'hanno ammazzato loro"


Paolo Borsellino
TOTÒ RIINA, l'uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull'uccisione di Paolo Borsellino dice: "L'ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.
Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all'esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un'"uscita" clamorosa sull'affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.
Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l'avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D'Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.
Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L'ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l'ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L'ammazzarono loro...".
E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".
Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l'omicidio di Borsellino, per l'omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell'inchiesta Borsellino non cambierà, fra l'altro adesso c'è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".
Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".
E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E' tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell'udienza del 24 gennaio 1998.
Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell'Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".
E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall'altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest'altra istanza".
Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l'esplosione dell'autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".
Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".

giovedì 16 luglio 2009

lettera del Presidente della Repubblica Napolitano al Governo

16 luglio 2009 – Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha promulgato ieri la legge sulla sicurezza. In una lettera inviata al presidente del consiglio, ai ministri dell’Interno e della Giustizia e, per conoscenza, al Parlamento, il Capo dello Stato evidenzia diverse criticità nel testo, che suscitano in lui “perplessità e preoccupazioni”.

Quello che segue è il testo integrale della lettera di Napolitano:

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Roma, 15 luglio 2009
Ho oggi promulgato la legge recante “Disposizioni in materia di pubblica sicurezza” approvata il 2 luglio scorso.
Ho ritenuto di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme – ampiamente condivise in sede parlamentare – che rafforzano il contrasto alle varie forme di criminalità organizzata sia intervenendo sul trattamento penitenziario da riservare ai detenuti più pericolosi (art. 2 commi 25 e 26) sia introducendo più efficaci controlli e sanzioni per le condotte di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni e nella economia legale (art. 2 commi 2, 20, 22, 29-30). Non posso tuttavia fare a meno di porre alla vostra attenzione perplessità e preoccupazioni che, per diverse ragioni, la lettura del testo ha in me suscitato.
Il provvedimento trae origine dal disegno di legge presentato dal Governo in Senato il 3 giugno 2008, dopo che, per l’assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza oltre che per la natura dei temi trattati, si era convenuto che alcune sue significative disposizioni non potevano essere inserite nel decreto legge – sempre in tema di sicurezza – emanato qualche giorno prima (decreto legge 23 maggio 2008, n. 92). Gli originari 20 articoli del disegno di legge divennero però ben 66 nel testo licenziato dall’Assemblea del Senato il 5 febbraio 2009 venendo poi accorpati in 3 attraverso la presentazione di “maxi-emendamenti” sui quali il Governo appose la questione di fiducia alla Camera : fiducia ottenuta il 14 maggio 2009 e poi nuovamente apposta al Senato sul medesimo testo per la definitiva approvazione del 2 luglio.
I tre articoli della legge si compongono ora, rispettivamente, di 32, 30 e 66 commi. Con essi si apportano modifiche o integrazioni a 43 disposizioni del codice penale, a 38 disposizioni del testo unico sulla immigrazione, a 16 disposizioni dell’ordinamento penitenziario e ad oltre circa 100 disposizioni inserite nel codice di procedura penale, nel codice civile e in 30 testi normativi complementari o speciali.
A spiegare il ricorso a una sola legge per modificare o introdurre disposizioni inserite in molti disparati corpi legislativi, tra i quali anche codici fondamentali, è stata la convinzione che esse attenessero tutte al tema della “sicurezza pubblica” nella sua accezione più ampia, funzionale all’intento di migliorare la qualità della vita dei cittadini rimuovendo situazioni di degrado, disagio e illegalità avvertite da tempo.
Dal carattere così generale e onnicomprensivo della nozione di sicurezza posta a base della legge, discendono la disomogeneità e la estemporaneità di numerose sue previsioni che privano il provvedimento di quelle caratteristiche di sistematicità e organicità che avrebbero invece dovuto caratterizzarlo.
In altre occasioni, ho rilevato pubblicamente (rivolgendomi alle “alte cariche dello Stato”, a partire dal dicembre 2006), come provvedimenti eterogenei nei contenuti e frutto di un clima di concitazione e di vera e propria congestione sfuggano alla comprensione della opinione pubblica e rendano sempre più difficile il rapporto tra il cittadino e la legge. Ritengo doveroso ribadire oggi che è indispensabile porre termine a simili “prassi”, specie quando si legifera su temi che – come accade per diverse norme di questo provvedimento – riguardano diritti costituzionalmente garantiti e coinvolgono aspetti qualificanti della convivenza civile e della coesione sociale. E’ in giuoco la qualità e sostenibilità del nostro modo di legiferare.
D’altronde è stato un organismo svincolato da ogni posizione di parte – il Comitato per la legislazione della Camera – a segnalare concordemente, nell’esaminare il disegno di legge in questione, nella seduta del 29 aprile 2009, che alcune disposizioni non rispondevano alle esigenze di “semplificazione della legislazione” ; altre non erano conformi alle esigenze di “coerente utilizzo delle fonti” ; altre adottavano “espressioni imprecise ovvero dal significato tecnico – giuridico di non immediata comprensione” o si sovrapponevano ad altre già vigenti ; altre, ancora, erano carenti sotto il profilo “della chiarezza e della proprietà della formulazione” (il richiamo è da intendersi ora all’art. 1 comma 28, all’art.3 commi 56 e 58, all’art. 2 comma 25 lett. f ) n. 3 e, infine, all’art. 3 commi 3,6 e 14). Ma tali stringenti osservazioni sono cadute nel vuoto.
In proposito, mi limito ad aggiungere che solo in casi eccezionali può tornarsi a legiferare sull’identico tema dopo brevissimo tempo ampliando l’area di applicabilità di istituti processuali, modificando fattispecie criminose o collocando altrove le stesse previsioni (come invece accade tra l’altro, per le disposizioni dell’art. 1 commi 2-5,14,26 e per quelle dell’art. 2 commi 21-22 e 27) ; così come appare contraria ai principi cardine di una corretta tecnica legislativa la circostanza che la modifica della stessa norma e dello stesso comma (art. 16 comma 1 del d.lgs. 286/1998) venga effettuata (come qui accade) in due diverse parti dello stesso provvedimento (art. 1 comma 16 lett. b ) e art. 1 comma 22 lett. o).
La formulazione, la struttura e i contenuti delle norme debbono poter essere “riconosciuti” (Corte costituzionale n. 364 del 1988 ) sia da chi ne è il destinatario sia da chi deve darvi applicazione. Il nostro ordinamento giuridico risulta seriamente incrinato da norme oscuramente formulate, contraddittorie, di dubbia interpretazione o non rispondenti ai criteri di stabilità e certezza della legislazione : anche per le difficoltà e le controversie che ne nascono in sede di applicazione.
Sulla base di quanto esposto, aggiungo di aver ravvisato nella legge anche altre previsioni che mi sono apparse – sempre a titolo esemplificativo – di rilevante criticità e sulle quali auspico una rinnovata riflessione, che consenta di approfondire la loro coerenza con i principi dell’ordinamento e di superare futuri o già evidenziati equivoci interpretativi e problemi applicativi.Mi riferisco alle disposizioni che hanno introdotto il reato di immigrazione clandestina (art. 1 commi 16 e 17). Esso punisce non il solo ingresso, ma anche il trattenimento nel territorio dello Stato. La norma è perciò applicabile a tutti i cittadini extracomunitari illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento della entrata in vigore della legge. Il dettato normativo non consente interpretazioni diverse : allo stato, esso apre la strada a effetti difficilmente prevedibili.
In particolare, suscita in me forti perplessità la circostanza che la nuova ipotesi di trattenimento indebito non preveda la esimente della permanenza determinata da “giustificato motivo”. La Corte costituzionale ( sentenze n. 5/2004 e n. 22/2007 ) ha sottolineato il rilievo che la esimente può avere ai fini della “tenuta costituzionale” di disposizioni del genere di quella ora introdotta.
L’attribuzione della contravvenzione di immigrazione clandestina alla cognizione del giudice di pace non mi pare poi in linea con la natura conciliativa di questi e disegna nel contempo, per il reato in questione, un “sottosistema” sanzionatorio non coerente con i principi generali dell’ordinamento e meno garantista di quello previsto per delitti di trattenimento abusivo sottoposti alla cognizione del tribunale. Per il nuovo reato la pena inflitta non può essere condizionalmente sospesa o “patteggiata”, mentre la eventuale condanna non può essere appellata.
Le modifiche apportate dall’art. 1 comma 22 lett. m ) in materia di espulsione del cittadino extracomunitario irregolare, determinano – a ragione di un difettoso coordinamento normativo – il contraddittorio e paradossale effetto di non rendere più punibile (o al più punibile solo con un’ammenda) la condotta del cittadino extracomunitario che fa rientro in Italia pur dopo essere stato materialmente espulso. La condotta era precedentemente punita con la reclusione da uno a cinque anni.
L’art. 1 comma 11 introduce una fattispecie di tipo concessorio per l’acquisto della cittadinanza da parte di chi è straniero e contrae matrimonio con chi è italiano. La norma non individua però i criteri in base ai quali la concessione è data o negata e affida qualsiasi determinazione alla più ampia discrezionalità degli organi competenti.
Tra le modifiche apportate al codice penale, si osserva in particolare che l’art. 3 comma 27 vieta di effettuare il giudizio di equivalenza o prevalenza tra alcune circostanze aggravanti del reato di rapina ed eventuali circostanze attenuanti. Le aggravanti del reato di rapina sono le stesse previste per quello di estorsione che, rispetto al primo, è punito più gravemente. La norma che impedisce il bilanciamento delle aggravanti non è però richiamata per la estorsione, con la irragionevole conseguenza che, per il delitto più grave, è consentito “neutralizzare” l’aumento sanzionatorio derivante dalla presenza delle circostanze. In via generale, comunque, i ripetuti e recenti interventi legislativi che hanno derogato al principio della bilanciabilità tra aggravanti a effetto speciale e attenuanti (art. 69 c.p.), sembrano ormai imporre una disciplina che regoli in modo uniforme l’intero sistema, razionalizzandolo e semplificandolo.
L’art. 1 comma 8, che ha reintrodotto il delitto di oltraggio stabilisce una singolare causa di estinzione del reato collegata al risarcimento del danno. La causa di estinzione è concettualmente incompatibile con i delitti che, come l’oltraggio, rientrano tra quelli contro la pubblica amministrazione.
Ai commi da 40 a 44, l’art. 3 stabilisce che i sindaci possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini per segnalare alle forze di polizia anche locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale. Essendo affidata non alla legge ma a un successivo decreto del Ministro dell’interno la determinazione degli “ambiti operativi” di tali disposizioni, appare urgente la definizione di detto decreto in termini di rigorosa aderenza ai limiti segnati in legge relativamente al carattere delle associazioni e al compito ad esse attribuito. Da ciò dipenderà la riduzione al minimo di allarmi e tensioni nell’applicazione della normativa in questione, anche sotto il profilo dell’aggravio che possa derivarne per gli uffici giudiziari.
Anche in rapporto all’innovazione sancita nei commi 40-44 dell’art. 3, va considerato il comma 32 dello stesso articolo, secondo il quale spetterà al Ministro dell’Interno stabilire “le caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa”, con particolare riferimento alla nebulizzazione di un determinato principio attivo naturale, ovvero all’uso di uno spray al peperoncino. Il rischio da scongiurare è che si favorisca la delinquenza di strada o comunque si indebolisca la prescrizione che le associazioni, di cui al comma 40, debbano essere formate da “cittadini non armati”. Peraltro è da rilevarsi che, stando ai principi affermati dalla giurisprudenza, il porto dello spray potrebbe restare sempre vietato a norma dell’art. 4 della legge 110/1975.
Al Presidente della Repubblica non spetta pronunciarsi e intervenire sull’indirizzo politico e sui contenuti essenziali di questa come di ogni legge approvata dal Parlamento: essi appartengono alla responsabilità esclusiva del governo e della maggioranza parlamentare. Il Presidente della Repubblica non può invece restare indifferente dinanzi a dubbi di irragionevolezza e di insostenibilità che un provvedimento di rilevante complessità ed evidente delicatezza solleva per taluni aspetti, specie sul piano giuridico. Di qui le preoccupazioni e sollecitazioni contenute nella mia presente lettera, e rivolte all’attenzione di questo governo nello stesso spirito in cui mi sono rivolto - dinanzi a distorsioni nel modo di legiferare, ad esempio in materia di bilancio dello Stato - al precedente governo, e nello stesso spirito in cui auspico ne tengano conto tutte le forze politiche che si candidino a governare il paese.

venerdì 3 luglio 2009

Il risultato elettorale di Bompietro

Ecco l'elenco con tutte le liste e i simboli nell’ordine come riportati nella scheda elettorale e i candidati alle elezioni amministrative del 6 e 7 giugno 2009 di Bompietro con i relativi voti ricevuti. I candidati elencati in corsivo sono gli eletti al consiglio comunale i cui seggi sono pari a 12; di questi 7 sono attribuiti alla lista collegata al candidato Sindaco risultato eletto e 5 sono attribuiti alla lista il cui candidato a Sindaco ha ottenuto il più alto numero di voti insufficiente per essere eletto. Gli iscritti nelle liste elettorali sono 1819, votanti 1151 (715-436) voti non attribuiti 46; di cui bianche 8 (4-4) e nulle 38 (10-28).
Candidato Sindaco Giuseppe Geraci voti 288; Lista Pippo Geraci Sindaco voti 261; voti di preferenza: Damiano La Tona 46, Leonardo Maurizio Ballarino 07, Armando Patrizio Calabrese 28, Salvatore Dichiara 09, Agnese Maria Di Gangi 13, Carmelo Di Gangi 20, Antonino Di Gioia 06, Calogero D'Ignoti 26, Biagio Federico 13, Antonino Li Pira 08, Sandra Mascellino 20, Carlo Mocera 13. Nessun seggio.
Candidato Sindaco Calogero D'Alberti voti 354; Lista Le ali per Bompietro voti 348; voti di preferenza: Vanessa Lucia Saguto 63, Liborio Ferrara 45, Salvatore Macaluso 37, Simonetta Maruca 33, Lucio Vaccarella 31, Rosario La Tona 29, Leonardo Richiusa 21, Nicolino Giuseppe Fiorino 19, Patrizia Cancellieri 18, Alessandra Giglio 16, Calogero Alaimo 04. Seggi attribuiti 5.
Candidato Sindaco Luciano Di Gangi voti 463; Lista Per Bompietro voti 487; voti di preferenza Pierina Richiusa 62, Rosario Librizzi 58, Giuseppe Di Gangi 47, Daniele Albanese 46, Giosuè Polito 45, Luciano Richiusa 43, Piero Librizzi 39, Francesco Bianco 26, Emilio Librizzi 21, Maria Rita Filì 18, Giovanni Giuliano 19, Giuseppe Antonino Sabatino 18. Seggi attribuiti 7.
Questa risulta per tanto essere la composizione del prossimo consiglio comunale:
Gruppo consiliare Per Bompietro: Pierina Richiusa (Presidente del Consiglio comunale), Rosario Librizzi, Giuseppe Di Gangi, Daniele Albanese, Giosuè Polito (Vice Presidente del Consiglio comunale), Luciano Richiusa, Piero Librizzi. Gruppo consiliare Le ali per Bompietro: Vanessa Lucia Saguto, Liborio Ferrara, Salvatore Macaluso, Simonetta Maruca, Lucio Vaccarella.
La Giunta comunale risulta così composta: Sindaco Lucio Di Gangi; Assessori: Gennaro Franco, Filì Domenico (Vice Sindaco), D’Anna Pier Calogero e Albanese Gioacchino.
Nel corso delle operazioni di voto è risultato che la scheda elettorale non era conforme all'ordine attribuito dal sorteggio. Così la lista numero 1 è diventa la numero 3 e viceversa.

martedì 30 giugno 2009

Le lettere meridionali: LA MAFIA

Di: Pasquale Villari - (Napoli 1826 - Firenze 1917). Storico e politico italiano. In esilio a Firenze dopo aver partecipato al moto napoletano del 1848, si dedicò agli studi storici ispirandosi al positivismo e rivolse la sua attenzione ai problemi del Mezzogiorno sollevando la questione meridionale. Deputato (1870) e poi senatore (1884), fu ministro della Pubblica istruzione (1891-1892).

Mio caro Dina
In questa lettera comincerò a ragionare dei mali che affliggono la Sicilia. La cosa è molto ardua per me, che conosco assai poco il paese. Ed è più ardua in se stessa, perché le opinioni su questo argomento, anche tra coloro che nacquero e vissero nell’Isola, sono disparatissime. Io andrò quindi assai cauto. Metterò sotto gli occhi del lettore i fatti che potei raccogliere, esporrò le conclusioni a cui sono venuto, e il modo, il processo logico con cui v’arrivai. Il lettore potrà da se fare le sue osservazioni, e giudicare le mie. Prima di tutto, voglio notare che ogni anno a me accade di ricevere lettere di giovani professori, i quali, invitati dal Governo ad andare in qualche liceo o ginnasio della Sicilia, mi chiedono ansiosamente, in nome loro e delle famiglie, notizia dei paesi cui sono destinati. lo mi rivolgo allora a qualche Siciliano amico, e domando. Sono stato molte volte maravigliato nel ricevere una risposta, che sembra esprimere come un giudizio popolare. Se io chiedevo di paesi delle province di Catania o di Siracusa, quasi sempre la risposta era: – Paesi buonissimi, si sta come in Toscana, si può andare coll’oro in mano. – Se invece chiedevo di paesi della Sicilia occidentale, specialmente delle province di Girgenti e di Caltanissetta, la risposta era spesso: – Eh! paesi di solfare, bisogna stare attenti –. Egli è noto che la Sicilia vien travagliata da quelle piaghe sociali, di cui tanto si parla adesso, principalmente nella sua parte occidentale. Qui appunto, non occupandoci per ora di Palermo che dà luogo ad altre considerazioni, è il centro delle solfare, che, dopo l’agricoltura, sono la più grande e ricca industria di quell’isola, industria che occupa molte migliaia di lavoranti d’ogni sesso ed età. Ed è noto che il lavoro delle solfare è fatto in un modo che molto spesso si può dire iniquo. Non solamente non si pigliano in esse tutti i necessarii provvedimenti a salvare la vita degli operai, che qualche volta restano soffocati dai gas che n’emanano, ed anche si accendono; sepolti sotto le volte che cadono, perché male costruite, o perché l’intraprenditore ha fatto assottigliare i pilastri, per cavarne altro minerale: ma segue di peggio ancora. La creatura umana è sottoposta ad un lavoro che, descritto ogni giorno, sembra ogni giorno più crudele e quasi impossibile. Centinaia e centinaia di fanciulli e fanciulle scendono per ripide scarpe e disagevoli scale, cavate in un suolo franoso e spesso bagnato. Arrivati nel fondo della miniera, sono caricati del minerale, che debbono riportare su, a schiena, col pericolo, sdrucciolando su quel terreno ripido e mal fido, di andar giù e perder la vita. Quelli di maggiore età vengono su, mandando grida strazianti; i fanciulli arrivano piangendo. È noto a tutti, è stato mille volte ripetuto, che questo lavoro fa strage indescrivibile fra quella gente. Molti ne muoiono; moltissimi ne restano storpiati, deformi o malati per tutta la vita. Le statistiche lo provarono ad esuberanza, la leva militare ha dato un numero spaventoso di riformati, l’inchiesta industriale ha raccolto tutte le notizie che si possono desiderare. È cosa che mette terrore. Il Congresso di Milano, l’onorevole Di Cesarò, l’onorevole Luzzatti ed altri levarono un grido generoso di protesta e di dolore contro queste enormità, le quali sono tanto più gravi, quanto più colla salute si distrugge la moralità di quelle popolazioni. Gli organismi deboli rimangono distrutti, i forti sopravvivono per comandare, tiranneggiare, opprimere fanciulli e fanciulle accatastati in quegli oscuri androni, dove ogni cosa può succedere. L’uomo si abbrutisce, si demoralizza e diviene facilmente un nemico della società, che lo tratta così spietatamente. Abbiamo qui dunque una prima sorgente del male. Si vede cogli occhi, si tocca con mano in che modo la moralità di certe classi sociali venga distrutta. Segue in Sicilia quello che era cominciato a seguire in tutti i paesi di miniere, con qualche differenza però. Altrove si pensò subito a porvi rimedio con leggi, che proteggono l’operaio e specialmente il fanciullo, il quale non deve lavorare oltre un certo numero di ore, non deve essere sottoposto a lavori che lo ammazzano o lo demoralizzano. La vita e la moralità dell’operaio furono efficacemente protette; il male fu fermato nel suo cammino. Dal 1859 fino ad oggi, a noi è invece mancato il coraggio, la previdenza necessaria a fare la legge che tanti avevano già fatta. Essa si discute ora negli Ufficii, e, com’è naturale, tutti l’approvano. Ci sarà però il tempo d’approvarla e discuterla anche in Parlamento, in questa sessione? O sarà la Camera troppo occupata, troppo stanca, troppo sopraffatta? E, approvata una volta questa legge, avrà il Governo la ferma volontà di farla eseguire? Si leverà certo nelle miniere un grido di protesta, e sarà invocato il sacro nome della libertà violata. Gli operai picconieri grideranno che col proibire il lavoro dei fanciulli, sarà diminuito il guadagno degli adulti. Le madri grideranno che s’impedisce ai loro figli di guadagnarsi un pane, e che così essi morranno di fame. I gabellotti o appaltatori strepiteranno che si mandano in rovina le loro industrie; che è ingiustizia senza nome l’obbligarli a condurre i lavori, scavare le volte, ecc. in un modo piuttosto che in un altro. E i sacri adoratori delle armonie economiche grideranno che tutto è compenso: il male che si voleva impedire da un lato, si produrrà in un altro, e intanto la libertà, che sola poteva rimediare a tutto, è stata violata. Ma quale libertà? Quella che dà al picconiere il diritto di ammazzare o demoralizzare i fanciulli, per guadagnare qualche scudo di più? Sono queste le armonie desiderate? Ma come, diranno forse allora gli uomini pratici, volete voi governare con tutto il paese contro di voi? In verità mi pare che se abbiamo saputo, quando è stato inevitabile, imporre la leva ed il macinato colla forza, dovremmo saper fare e far rispettare le leggi certo non meno sacre, che proteggono i deboli e la pubblica moralità. Altrimenti è inutile domandare: perché seguono tanti delitti, perché non c’è sicurezza pubblica? Anche questa è un’armonia fra causa ed effetto. E se da un lato noi dobbiamo, per necessità inesorabile delle nostre finanze, mantenere il lotto che corrompe il popolo, e da un altro lasciare che chi vuole l’opprima e lo corrompa, cosa sarà mai di esso e di noi? Il giorno in cui l’Italia si dichiarasse impotente a rispettare ed a far rispettare le leggi più elementari della giustizia, essa avrebbe pronunziata la propria condanna di morte; avrebbe in faccia all’umanità confessato che non ha il diritto di esistere. Che importerebbe infatti all’umanità un’Italia unita e libera piuttosto che divisa ed oppressa, se la nostra libertà dichiarasse che, per esistere, deve permettere che i sacri diritti dei deboli vengano ogni giorno violati? La quistione siciliana si presenta in tutta la sua spaventosa gravità nella provincia di Palermo, dove uno stato sociale, che ancora non si conosce abbastanza, produce non la camorra, ma la mafia. Questa è stata studiata e descritta con molti particolari, prima dal barone Turrisi-Colonna, poi dall’onorevole Tommasi-Crudeli e da altri, in opuscoli nei quali sono esaminati anco i diversi elementi storici che contribuirono a generare ed accrescere il male. Sarebbe inutile veire qui a ripetere ciò che essi hanno già detto. E del resto, non è il sapere quel che fa la mafia e come lo fa, e neppure il conoscere quali sono gli elementi ad essa estranei, che la promuovono e le aumentano vigore, ciò che a noi più importa. Son cose in gran parte già note. Questa mafia non ha statuti scritti, non è una società segreta; si potrebbe dire quasi che non è un’associazione; è una camorra d’un genere particolare; s’è formata per generazione spontanea. A noi importa sapere come e perché nasce e si mantiene così vigorosa, più audace assai che la camorra. La mafia guadagna, si vendica, ammazza, riesce persino a produrre sommosse popolari. Chi comanda e chi obbedisce, chi sono gli oppressi e chi sono gli oppressori? È difficile farsi un’idea degli ostacoli che si ritrovano, quando si vuol ricevere o dare una risposta precisa a queste domande. Ognuno ha una opinione o un’idea diversa. Ho letto un gran numero di libri e di opuscoli, ho interrogato molti Siciliani e molti stranieri residenti nell’Isola da lungo tempo: la varietà delle opinioni cresceva ogni giorno. Un Inglese da parecchi anni dimorante in Palermo, mi scriveva più volte che, senza provvedimenti eccezionali, era ridicolo pensare di poter ristabilire colà la pubblica sicurezza. Interrogato però da me sopra varie questioni, egli, uomo dotto, intelligente, molto pratico di affari, rispondeva schietto di non essere in grado di darmi alcuna cognizione sicura. Inviò le mie domande ad un altro Inglese, già da lungo tempo residente nell’interno dell’Isola, ivi mescolato in molti affari, ed uomo accorto: he has a long head, he is your man, egli è assai accorto, è il vostro uomo, diceva il mio amico. La risposta fu, che era molto difficile il conoscere davvero l’origine prima ed il carattere della mafia: i passati Governi, le rivoluzioni, la mancanza di strade e di opere pubbliche, ecc ecc. Una sola cosa era certa, egli scriveva, e cioè che i provvedimenti eccezionali, farebbero più male che bene. Il rimedio stava nel tempo, nelle opere pubbliche, cui la Sicilia aveva diritto, e finalmente nelle scuole, l’eterna panacea di tutti i mali. I due Inglesi si neutralizzavano, ed io restavo come prima. Un giorno ero immerso nella lettura degli opuscoli sulla Sicilia, quando m’arrivò la notizia che il prof. Caruso, siciliano, non nato, ma educato a Palermo, e che ora insegna agronomia nell’Università di Pisa, dalla cattedra e nella scuola illustrata dal Cuppari, aveva accennato alla questione in un suo pubblico discorso, letto nella solenne apertura dell’anno accademico 1873-74. Scrissi subito per avere il discorso, e vi trovai in pochi periodi accennato, che nella Sicilia v’era una grossa quistione sociale, derivante dalla grande coltura e dalla miseria del contadino. «La rivoluzione di Palermo nel 1866, egli diceva, non fu politica, ma sociale, si perché non aveva nessuna bandiera politica certa, si perché il contingente più numeroso lo forniva la campagna, mandando in quella sventurata città coorti di opranti affamati, desiderosi di arricchirsi». Unico rimedio ai mali, continuava il Caruso, sarebbe l’introduzione di quel contratto di mezzerìa, secondo il quale è coltivata la Toscana, e col quale si fanno al contadino condizioni eccellenti. E subito, nell’Accademia dei Georgofili, l’ex-deputato E. Rubieri annunziò con parole di elogio questo discorso, ricordando come egli avea nel 1868, dopo un viaggio in Sicilia, sostenuto la medesima idea nel suo libro: Sulle condizioni agrarie, economiche e sociali della Sicilia e della Maremma Pisana. Lo lessi con avidità anche questo lavoro, e da tutto ciò ricevei una profonda impressione, perché mi ero già prima convinto che la questione del brigantaggio nelle provincie napoletane, era una questione agraria e sociale. Ma quale non fu la mia meraviglia, quando, raccolti gli appunti per quel che riguardava in ispecie la provincia di Palermo, interrogando alcuni Siciliani che mi parevano autorevoli vidi che si mettevano a ridere sgangheratamente. In tutto questo, essi dicevano, non c’è una sola parola di vero. Come! noi oppressori dei contadini? Ma se siamo noi oppressi dai contadini! È la mafia che impedisce a noi d’andare a vedere i nostri fondi. Il tale, il tale altro da 10 anni non ha potuto vedere le sue terre, che sono amministrate e guardate dai mafiosi, dalle cui mani non può levarle senza pericolo di vita. A questo s’aggiunse una notizia singolarissima, la cui verità ho potuto in molti modi accertare. Il maggior numero di delitti si commette da abitanti dei dintorni di Palermo, che per lo più non sono poveri, spesso anzi contadini censuarii o proprietarii, che coltivano mirabilmente i loro giardini d’aranci. Nella Conca d’Oro l’agricoltura prospera; la grande proprietà non esiste; il contadino è agiato, mafioso, e commette un gran numero di delitti. lo non volevo credere a questa notizia, che sembrava sovvertire tutti quanti i principii dell’economia politica e della scienza sociale; ma la riscontrai in mille modi, ed in mille modi mi fu riconfermata. Ripigliai, rilessi da capo i miei opuscoli e i libri sulla Sicilia, per vedere se era possibile raccapezzarsi. Negli Annali d’agricoltura siciliana trovai ripetuto, che l’agricoltura e la prosperità materiale da lungo tempo hanno fatto molti progressi nei dintorni di Palermo. Nell’opuscolo del Turrisi Colonna sulla Sicurezza Pubblica in Sicilia, trovai confermato che il centro principale, la vera sede della mafia è nei dintorni di Palermo; di là essa stende le sue fila nella città. Qui il basso popolo non è avvilito ed oppresso; ma piuttosto sanguinario, pronto al coltello; aderisce alla mafia, e ne va orgoglioso. Il contadino agiato ed il borghese, come dicono colà, di Monreale, di Partinico, ecc.; i gabellotti o affittuarii, e le guardie rurali di quei medesimi luoghi sono quelli che costituiscono il nucleo principale della mafia. Questa dunque stende le sue più profonde radici nella campagna, mentre la camorra le stende nella città. Dentro Palermo voi potete di giorno e di notte passeggiare impunemente; se v’allontanate un miglio dalle porte, anche oggi, mi dicono, voi non siete sicuro d’arrivare a Monreale. A tali notizie bisogna aggiungerne un’altra, che è pure di massima importanza per conoscere le condizioni dell’Isola. Questa va divisa in più zone, che sono fra loro assai diverse. Nell’interno v’è la grande coltura. Ivi sono feudi o latifondi, ivi sono i miseri proletarii, ivi l’agricoltura è in uno stato primitivo; mancano le acque, l’aria è cattiva, il fertile suolo della Sicilia pare spesso una maremma, e v’è poco più che la coltura dei cereali. Vicino alle coste, specialmente presso le città, e massime nei dintorni di Palermo, la scena muta affatto. Qui sono giardini, piccola coltura, agricoltura progredita, spesso contadini censuarii o proprietarii, quasi tutti intelligenti, eppure prontissimi ai delitti. A questi s’uniscono gabellotti e guardiani, anch’essi agiati, anch’essi pronti al delitto. Ora in che relazione si trovan fra loro i cittadini, questi borghesi, gabellotti, guardiani, ecc., ed il proletario dell’interno dell’Isola? Ecco il nuovo problema che mi si affacciava. Dopo mille domande e lettere scritte per arrivare alla soluzione del problema, la risposta che più mi parve avvicinarsi al vero mi fu data da un patriotta siciliano, stato ufficiale prima di Garibaldi e poi dell’esercito regolare, il quale fece un piccolo giro nei dintorni di Palermo, per poi rispondere più esattamente alle mie domande. Il lettore legga con attenzione la lettera di questo amico, e vi troverà qualche notizia importante a risolvere l’arduo problema. Non dimentichi però che scrittore parla de visu, per ciò che risguarda, una parte sola dei dintorni di Palermo. «In Sicilia bisogna distinguere due classi di contadini, uno che abita verso le coste, dove le terre sono più coltivate e meglio divise, e dove il contadino assai spesso possiede la sua porzioncella coltivata o a viti o ad olivi o ad agrumi o a sommacco. Così, per esempio, nella Conca di Palermo i quattro decimi dei contadini sono piccoli censuarii o proprietarii, e nel territorio che si dice della Sala di Partinico, o meglio quella parte della costa che si bagna nel golfo di Castellamare, gli otto decimi dei contadini sono quasi tutti in questa condizione. Tanto ciò è vero, che si è calcolato, che se, per esempio, a Partinico i contadini non fossero analfabeti, potrebbero tutti essere elettori amministrativi o politici, perché tutti pagano la tassa richiesta dalle leggi. Ne vuole saper una? I Comuni di Monreale e di Partinico sono quelli, in cui le basse classi o meglio il contadinume si trova più che in tutti gli altri Comuni della provincia in uno stato di agiatezza. Ora in questi due paesi appunto gli omicidii sono più spessi e più efferati. La vera classe di contadini che, addetta alla seminagione del frumento, il novanta per cento nulla possiede, e si trova a discrezione di un burbero padrone, è quella che abita l’interno dell’Isola, dove sono i latifondi, coltivati da uomini che vivono come schiavi. Per rispondere, con notizie certe, ai quesiti propostimi da lei, io piglio ad esempio per tutti Piana dei Greci. Gli abitanti si dividono in tre classi: – galantuomini o boiardi; borgesi o contadini un po’ agiati, che fanno da affittuarii, e villani o giornalieri. Circa quattro famiglie di boiardi e sei di borgesi fanno negozio di grano, hanno preso in affitto gli ex-feudi dei signori di Palermo, dando ogni anno a coltivare le terre, in piccole porzioni, ai poveri contadini. Le forme di questi subaffitti sono varie, ma quasi tutte d’un anno od a brevissima scadenza, e sempre il feudo viene diviso in piccole porzioni. A mezzerìa si dice quando il contadino, coltivando il grano, dà metà del prodotto al padrone, che piglia poi dalla metà del contadino il prezzo per la guardia rurale, fissandolo egli stesso. Dicesi a terraggio, quando il contadino s’obbliga a dar tante salme di grano per salma di terreno. In questi casi, se si anticipa il grano per seminare, si ripiglia con un interesse del 25%. Dicesi a maggese, quando si consegna al contadino il pezzo di terra già arato. Egli lo semina, e dà poi tante salme di grano, secondo il patto fissato nell’anno. Di quello che avanza, piglia solo la metà, l’altra va al padrone. Anche in questo caso, il grano per la semina è dato in prestito dal padrone al 25%. Quando questi patti onerosi hanno rovinato il contadino, esso diventa giornaliero, e guadagna da L. 1,70 a L. 2 al giorno; nel tempo della mietitura anche 3. Cessati i lavori resta senza guadagno. Alcuni dei boiardi e dei borghesi si contentano vivere delle loro rendite; ma gli altri pigliano in affitto i feudi, negoziano di grano, ed esercitano un’usura spaventosa sui contadini. Lo stato dei contadini nell’interno dell’Isola è deplorevolissimo. In massima parte sono proletarii, che debbono ogni giorno camminar molte miglia, per arrivare al luogo del lavoro. Altra relazione tra essi e i loro padroni non v’è, che quella dell’usura e della spogliazione, di oppressi e di oppressori. Se viene l’annata cattiva, il contadino torna dall’aia piangendo, colla sola vanga sulle spalle. E quando l’annata è buona, gli usurai suppliscono alla grandine, alle cavallette, alle tempeste, agli uragani. I contadini sono un esercito di barbari nel cuore dell’Isola, ed insorgono non tanto per odio contro il Governo presente, quanto per vendicarsi di tutte le soperchierie, le usure e le ingiurie che soffrono, ed odiano ogni Governo, perché credono che ogni Governo puntelli i loro oppressori». Noi abbiamo dunque tre classi distinte. In Palermo sono i grandi possessori dei vasti latifondi o ex-feudi, e nei dintorni abitano contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali si forma una classe di gabellotti, di guardiani e di negozianti di grano. I primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non s’intendono; fra i secondi essa recluta i suoi soldati, i terzi ne sono capitani. Nell’interno dell’Isola si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletarii. I borgesi arricchiti, i proprietarii negozianti pigliano a gabella gli ex-feudi, che subaffittano ai contadini, dividendo le vaste tenute in porzioni, delle quali serbano per se stessi la migliore, e fanno contratti di subaffitto, diversi, ma sempre onerosissimi al contadino. E aggiungono poi l’usura, che ordinariamente arriva al 25%, spesso sale ad un interesse assai maggiore. Inoltre negoziano in grano. Messa da parte l’usura, i contratti sono tali, che i calcoli degli agronomi siciliani dimostrano (prof. G. Caruso, Studii sull’industria dei cereali in Sicilia: Palermo, 1870) che il contadino, nei casi ordinarii, non può trovare i mezzi necessarii alla vita. Perciò egli deve indebitarsi e cadere in mano dell’usuraio, di cui è fatto schiavo, fino a che non si getta al brigantaggio, quando non diviene proletario, per peggiorare anche il suo stato. Egli allora percorre la feconda terra siciliana, senz’altro che una zappa sulla spalla, carico d’un cumulo di debiti. Si pensi che la coltura dei cereali si estende a 77 per cento di tutta la superficie dell’Isola, e si capirà a che cosa arrivi questo esercito d’infelici, che sono come gli schiavi dell’usuraio e dell’affittuario. Fra i tiranni dei contadini sono le guardie campestri, gente pronta alle armi ed ai delitti, e sono ancora quei contadini più audaci, che hanno qualche vendetta da fare, o sperano trovar coi delitti maggiore agiatezza: così la potenza della mafia è costituita. Essa forma come un muro tra il contadino ed il proprietario, e li tiene sempre divisi, perché il giorno in cui venissero in diretta relazione fra loro, la sua potenza sarebbe distrutta. Spesso al proprietario è imposta la guardia de’ suoi campi, e colui che deve prenderli in affitto. Chiunque minaccia un tale stato di cose, corre pericolo di vita. I delitti sono continui in questa classe, che pure non è data per mestiere al brigantaggio; ma lavora la terra, fa i suoi affari con intelligenza, mantiene il suo predominio col terrore. Oggi, dietro una siepe, tirano una fucilata al viandante od al vicino rivale; domani vangano tranquillamente i loro campi d’agrumi, o attendono nella città ai propri commerci. La base, le radici più profonde della loro potenza sono nell’interno dell’Isola, fra i contadini che opprimono e su cui guadagnano; ma questa potenza si estende e si esercita anche nella città, dove la mafia ha i suoi aderenti, perché v’ha ancora i suoi interessi. A Palermo, infatti, sono i proprietari; a Palermo si vende il grano e si trovano i capitali; a Palermo vive una plebe pronta al coltello, che può, all’occorrenza, dare braccio. E così la mafia è qualche volta divenuta come un Governo più forte del Governo. Il mafioso dipende in apparenza dal proprietario; ma in conseguenza dalla forza che gli viene dall’associazione, in cui il proprietario stesso si trova qualche volta attirato, egli riesce di fatto ad esser il padrone. E abbiamo visto perfino che la mafia promosse una rivoluzione, alla testa della quale pose alcuni proprietarii, prima che avessero il tempo di pensare a trovar modo di separarsene. Ammesso questo stato di cose, tutte le osservazioni fatte dal barone Turrisi, dal Tommasi-Crudeli e da molti altri spiegano chiaramente in che modo il male sia andato sempre crescendo. Gli abitanti dei dintorni di Palermo discendono per lo più da famiglie d’antichi bravi dei baroni, e quindi tra di essi la tradizione del sangue è antica. Chi è d’accordo colla mafia è sicuro; chi la comanda è padrone di una forza grandissima, e può mantenere l’ordine, o promuovere una rivolta. Perciò i Borboni governarono colla mafia, ed anche la rivoluzione ricorse ad essa, che poté subito armare contadini e popolo, porsi alla loro testa e rovesciare il Governo stabilito. Le compagnie d’armi, istituite in tutti i tempi a mantenere l’ordine, furono reclutate nella medesima classe, e non spegnevano i delitti; ma quasi gli organizzavano fra certi limiti, con certe norme, perché il nuovo guadagno che facevano come stipendiati del Governo, e la nuova autorità acquistata, servissero a sempre meglio consolidare il proprio potere. La pubblica sicurezza venne affidata alla mafia, dandole così in mano la società, e questo sistema che pur troppo fu lungamente seguito, rese sempre più forte l’associazione che si voleva distruggere. È ben noto che i problemi sociali non sono problemi di matematica; gli elementi che li costituiscono sono varii e moltiplici, s’intrecciano e si confondono fra loro. La divisione di classi da noi osservata, neanche nella Sicilia occidentale si trova sempre esattamente disegnata e distinta; le condizioni qualche volta s’alterano e si modificano, ma pure assai spesso gli effetti sembrano o sono identici. Basta che le radici del male siano fortemente e profondamente costituite in una parte del paese, perché questo male sorga e si propaghi. Ma dove le condizioni dell’Isola radicalmente si modificano, ivi esso scomparisce o muta natura. La Sicilia occidentale adunque è travagliata da due grandi calamità: lo stato delle sue ricche solfare, e la mafia che nasce dalle condizioni speciali della sua agricoltura. Perché le cose sono nella Sicilia orientale tanto diverse? Ivi mancano le solfare; ivi le condizioni geografiche ed agronomiche sono d’altra natura. Il terreno più montuoso e meno fertile ha dato luogo a molti contratti di colonìa parziaria, che è sempre più mite della terraggerìa o della mezzerìa di Palermo. A Catania, è vero, la coltura dei cereali arriva sin quasi alle porte della città; ma questo appunto, cioè la mancanza d’una zona intermedia di terreno più fecondo, ha impedito che sorga una classe di contadini più agiati, da cui poi i gabellotti e mercanti oppressori. Sono miseri proletarii, sottoposti ad una tirannia diversa, simile a quella che troviamo nella Basilicata o in altre province del continente meridionale; arrivano, lavorano la terra senza portare disordini. L’estrema miseria gli spinge qualche volta al brigantaggio, ma non possono costituire la mafia. S’aggiunga poi che a Palermo si trovano i più grandi possessori di latifondi, il che più facilmente dà modo al gabellotto di guadagnare col subaffitto dei vastissimi ex-feudi; e si capirà, io credo, in che modo i dintorni della capitale dell’Isola abbiano il triste privilegio d’essere il centro della mafia. Ed ora quale è il rimedio contro questi mali? Qui si presenta un problema che spaventa, per l’estensione che prende, come vedremo, non solo in Sicilia, ma in tutta l’Italia, specialmente meridionale. È chiaro intanto che i rimedii son sempre di due sorta: repressivi e preventivi. Bisogna, non v’ha dubbio, punire severamente i delitti con pronta ed esemplare giustizia; ma anche qui la prigionia è inutile, se non s’isola o non si manda lontano il condannato. A riuscire però coi soli mezzi repressivi, bisognerebbe portare la repressione fino allo sterminio. Allora, di certo, col terrore cesserebbero i delitti, salvo sempre a vedere, se quelle condizioni che hanno prodotto il male, restando le stesse, non lo riprodurrebbero in breve. Ma lo sterminio porta un consumo spaventevole di forze, ed un Governo civile non può decidersi a ciò. Occorre il dispotismo. Noi dobbiamo dunque assalire il nemico da due lati: punire e reprimere prontamente, esemplarmente; ma nello stesso tempo prevenire. In che modo? Bisogna curare la malattia nella sua sorgente prima. Il Governo deve avere il coraggio di presentarsi come colui che vuol redimere gli oppressi dal terrore e dalla tirannide che pesa su di essi. È vero o non è vero quello che dicono gli agronomi siciliani, che cioè i contratti agrarii fatti col terraggiere, col mezzadro ecc. sono iniqui? Se è vero, è necessario cercare qualche rimedio a ciò, sia con mezzi legislativi, e con un’azione energica del Governo in difesa della giustizia e dei deboli; sia con una pubblica opinione più illuminata, o con altro mezzo qualunque. Se a questo non si può riescire, non è sperabile di potere estirpare il male. Quando i contratti agrarii assicurassero al contadino, con una maggiore indipendenza, un’equa retribuzione, e lo ponessero in relazione amichevole col proprietario, il guadagno della mafia e con esso la sua potenza e la sua ragione di essere sarebbero distrutti. È possibile, è sperabile arrivare allo scopo? Ecco l’arduo problema. La quistione si allarga ora immensamente, perché nelle province napoletane, dove non troviamo la mafia, il contadino geme sotto un’altra forma di miseria e di oppressione, che esiste pure nella Sicilia orientale, e dalla quale derivano conseguenze diverse, ma pure gravissime. Invece della mafia abbiamo il brigantaggio, che ci presenta la quistione agraria sotto un altro aspetto. Ed anche qui l’unico rimedio possibile è sempre lo stesso: la repressione esemplare e pronta dei colpevoli da un lato, la redenzione degli oppressi dall’altro. E la difficoltà gravissima è anche la stessa, cioè: può lo Stato far nuove leggi, per determinare le forme e le condizioni dei contratti agrari? Facendole, conseguirebbe lo scopo? O è sperabile invece che basti il naturale progresso della pubblica opinione e dei costumi, ed è necessario affidarsi solo a ciò? Di questo ti dirò qualche cosa, dopo aver parlato del brigantaggio. Tuo affez. P. VILLARI

venerdì 12 giugno 2009

2 giugno 1946, l'Italia diventa Repubblica

L'Italia il 2 giugno 1946 si reca alle urne per scegliere una forma di Stato. Monarchia o Repubblica? I seggi sono presi d'assalto da migliaia di italiani che li affollano ordinatamente e senza creare disagi e disordini. Sono italiani che vogliono esprimere liberamente, nel segreto dell'urna, il loro pensiero, la loro convinzione. Sono Italiani che vogliono fare la loro sccelta sicuri di essere ascoltati, sicuri che il risultato delle urne sarà tradotto in leggi che saranno applicate e rispettate da tutti. Sono gli Italiani che hanno perso ogni cosa a causa della guerra, sono italiani che non hanno più niente. Sono italiani che hanno solo un sogno! Il risultato elettorale sarà reso noto il 21 giugno 1946; hanno votato a favore della Repubblica il 50,9%, si sono espressi per la monarchia il 43,2% gli indecisi sono stati il 5,9%.L'Italia ha scelto: REPUBBLICA! E così è stato.

lunedì 1 giugno 2009

I debiti? Quali debiti? Chi ha fatto i debiti?

I debiti?
Quali debiti?
Chi ha fatto debiti?

I Romani usavano dire:
DURA LEX SED LEX

Questo motto va riferito al periodo di introduzione delle leggi scritte nell'antica Roma.
Letteralmente, significa dura legge ma legge. In Italiano equivarrebbe a dire "La legge è dura, ma è la legge".
È un invito a rispettare la legge in tutti i casi, anche in quelli in cui è più rigida e rigorosa, in quanto avendo come prospettiva il risanamento di gravi abusi lesivi del diritto, privato o pubblico, invita all'osservanza di leggi anche gravose in considerazione del beneficio della comunità.
La stessa prospettiva della legge deve essere estesa all’informazione.
Essa, quindi, non può essere di parte, non può essere detta in parte e soprattutto deve essere sempre sopra le parti.
E alla giustizia dell’informazione non si può venir meno.
Considerato che questa informazione la offro io che sono di parte non oso commentarla ma solo mostrarla.
E a tal fine vi offro i documenti così come sono stati scritti e pubblicati dalla Regione Siciliana.
Chi pagherà per quanto causato in considerazione del mancato beneficio della comunità?
Bompietro, 1 giugno 2009

a proposito dei debiti.....La verità è figlia del tempo

REPUBBLICA ITALIANA
GAZZETTA UFFICIALE DELLA REGIONE SICILIANA
PARTE PRIMA PALERMO - VENERDÌ 4 FEBBRAIO 2005 - N. 5 SI PUBBLICA DI REGOLA IL VENERDI'
DECRETI ASSESSORIALI
ASSESSORATO DEI LAVORI PUBBLICI
DECRETO 19 gennaio 2005.
Graduatoria definitiva dei progetti ammissibili e non ammissibili relativi al bando pubblico per la riqualificazione urbana nei centri con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti - Interventi per enti pubblici.
L'ASSESSORE PER I LAVORI PUBBLICI
Visto lo Statuto della Regione;
Vista la legge 5 agosto 1978, n. 457 e successive modifiche ed integrazioni;
Vista la legge 17 febbraio 1992, n. 179 e successive modifiche ed integrazioni;
Visto il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112;
Vista la legge 8 febbraio 2001, n. 21 e successive modifiche ed integrazioni;
Vista la legge regionale 2 agosto 2002, n. 7 e successive modifiche ed integrazioni;
Vista la deliberazione n. 248 del 24 luglio 2002, con la quale la Giunta regionale ha approvato la rimodulazione e programmazione dei fondi dell'edilizia agevolata;
Considerato che nella citata deliberazione n. 248/2002, tra l'altro, è prevista la predisposizione di un bando pubblico finalizzato alla "Riqualificazione urbana nei centri con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti" - Interventi per enti pubblici.
Visto il decreto n. 1555/8ª del 28 ottobre 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana del 6 dicembre 2002, con il quale è stato approvato ed emanato il bando pubblico di che trattasi;
Visto il decreto dell'11 giugno 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 36 del 14 agosto 2003, n. 36, con il quale è stata costituita la commissione esaminatrice dei progetti presentati;
Vista la deliberazione n. 335 del 23 ottobre 2003, con la quale la Giunta regionale ha approvato la rimodulazione e programmazione dei fondi dell'edilizia agevolata;
Visto l'esito della valutazione effettuata dalla commissione, formalizzata nei verbali numerati da 1 (18 giugno 2003) a 38 (3 dicembre 2003), da cui risultano i progetti ammissibili con la relativa valutazione ed i progetti esclusi con a fianco indicati i codici di esclusione;
Visto il proprio decreto n. 2273 del 24 dicembre 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana del 16 gennaio 2004, con il quale è stata approvata la graduatoria provvisoria dei progetti ammissibili e l'elenco dei progetti non ammissibili, per la presentazione di eventuali osservazioni, così come previsto all'art. 2 del suddetto decreto;
Considerato che sono pervenute 247 osservazioni presentate dai comuni in merito alla graduatoria provvisoria pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana del 16 gennaio 2004;
Visto l'esito dell'esame delle stesse osservazioni, effettuato dalla commissione nelle sedute del 9 febbraio 2004, 16 febbraio 2004, 23 febbraio 2004, 25 febbraio 2004, 1 marzo 2004, 9 marzo 2004, 15 marzo 2004, 22 marzo 2004, 25 marzo 2004, 29 marzo 2004, 1 aprile 2004, 5 aprile 2004, 8 aprile 2004, 26 aprile 2004, 3 maggio 2004, 6 maggio 2004, 11 maggio 2004, 17 maggio 2004, 18 maggio 2004;
Vista la nota del 15 giugno 2004, con la quale la commissione ha comunicato di avere ultimato l'esame dei progetti e trasmesso l'esito delle sedute;
Visto l'esito dell'esame effettuato dalla commissione nelle sedute del 16 settembre 2004, 22 settembre 2004, 1 ottobre 2004, 5 ottobre 2004, 6 ottobre 2004, 12 ottobre 2004, 14 ottobre 2004, 18 ottobre 2004;
Vista la deliberazione n. 398 del 7 dicembre 2004, con la quale la Giunta regionale ha ulteriormente modificato la precedente deliberazione n. 248/2002;
Ritenuto, pertanto, di potere procedere in termini definitivi all'approvazione della graduatoria dei progetti valutati;
Decreta:
Art. 1
E' approvata la graduatoria definitiva dei progetti risultati ammissibili, secondo le valutazioni espresse dalla commissione, nominata con decreto dell'11 giugno 2003, ed in base ai criteri elencati nel bando di "Riqualificazione urbana nei centri con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti" - Interventi per enti pubblici, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana del 6 dicembre 2002, graduatoria riportata nella tabella che fa parte integrante del presente decreto.
A parità di punteggio, la posizione in graduatoria dei progetti è stata stabilita mediante le modalità sotto riportate:
a) comuni che, sulla scorta del punteggio conseguito nella stessa graduatoria, non siano già destinatari di altro finanziamento;
b) comuni la cui compartecipazione risulti percentualmente più alta;
c) distribuzione territoriale.
Si è tenuto conto del criterio di cui al punto b), nel caso in cui, dopo l'applicazione del criterio di cui al punto a) si sono verificate ulteriori posizioni ex aequo ed egualmente si è proceduto per la considerazione del criterio di cui al punto c).
Art. 2
Nell'ambito della stessa graduatoria di cui all'art. 1 sono riportati i progetti risultati non ammissibili, secondo le valutazioni espresse dalla commissione in base ai criteri elencati nel bando sopra citato, con l'indicazione, a fianco di ciascun progetto, del codice con il quale è identificata la causa di esclusione.
Art. 3
I progetti contraddistinti con il numero progressivo da 1 a 133 sono finanziati in base alla disponibilità di E 120.000.000,00 assegnata con la deliberazione di Giunta regionale n. 248/2002 "Rimodulazione e programmazione dei fondi di edilizia residenziale pubblica agevolata" e di E 25.000.000,00 assegnata con la successiva deliberazione di Giunta regionale n. 355/2003 "Assestamento della programmazione dei fondi dell'edilizia residenziale pubblica agevolata", ridotti a E 22.000.000,00 con successiva deliberazione di Giunta regionale n. 398/2004 "Assestamento, rimodulazione e programmazione delle residue disponibilità dei fondi dell'edilizia residenziale pubblica agevolata - Modifica deliberazione n. 248 del 24 luglio 2002".
Pertanto, verificato il rispetto delle condizioni di cui agli articoli seguenti, con successivi provvedimenti si provvederà ad impegnare la somma complessiva di E 142.000.000,00 resasi disponibile sul capitolo 672090, del bilancio della Regione siciliana.
Art. 4
I comuni proponenti i progetti di cui all'art. 3 dovranno trasmettere al dipartimento regionale lavori pubblici, entro e non oltre 60 giorni dalla data di notifica della comunicazione dell'utile ammissione a finanziamento, gli atti definitivi concernenti il cofinanziamento per la misura indicata nella graduatoria in argomento ed in ogni caso sino alla concorrenza dell'importo massimo finanziabile pari ad E 1.500.000,00, indicando altresì la fonte dell'approvvigionamento finanziario ed il capitolo del proprio bilancio su cui graverà la spesa.
Il mancato rispetto della condizione sopra descritta comporterà l'automatica revoca del finanziamento concesso ed il conseguente scorrimento della graduatoria.
Art. 5
I comuni proponenti i progetti di cui all'art. 3 devono, ai sensi dell'art. 14 bis, comma 12, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, nel testo coordinato con le leggi regionali n. 7/2002 e n. 7/2003 e successive modifiche ed integrazioni, avviare le procedure per l'appalto entro 3 mesi dalla data di notifica della comunicazione dell'utile ammissione a finanziamento, scaduto il quale termine si provvederà alla nomina di un commissario ad acta.
In ogni caso, l'inizio dei lavori dovrà avvenire entro 13 mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana del presente decreto.
Il mancato rispetto della condizione sopra detta comporterà l'automatica revoca del finanziamento concesso ed il conseguente scorrimento della graduatoria.
Art. 6
Le economie derivanti dai ribassi d'asta, così come l'importo pari ad E 1.063.040,21 (differenza tra E 142.000.000,00 e la somma immediatamente impegnata pari a E 140.936.959,79), nonché eventuali altre economie derivanti dall'esecuzione dei lavori, saranno utilizzate per il finanziamento dei restanti interventi risultati ammissibili.
Art. 7
Il presente decreto sarà inviato alla Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana per la pubblicazione, nonché pubblicato sul sito internet dell'Assessorato dei lavori pubblici all'indirizzo www.lavoripubblici.sicilia.it/.
PER VISUALIZZARE GLI ALLEGATI IN PDF CLICCA QUI: http://www.gurs.regione.sicilia.it/Gazzette/g05-05/g05-05-a.pdf
Palermo, 19 gennaio 2005.
PARLAVECCHIO

martedì 26 maggio 2009

FINALMENTE SI VOTA!

Sembrava che questo momento non dovesse arrivare! Invece il tempo nel suo scorrere inesorabile è stato, come sempre, puntuale. Dopo cinque interminabili anni di stasi amministrativa, per i notissimi contrasti interni alla maggioranza che, dopo appena due giorni dall’elezione, ha mutato il suo aspetto originario manifestato nel corso della campagna elettorale e camaleonticamente in consiglio elegge presidente colui che era indicato assessore e assessore colui che era designato presidente e muta ancora dopo un anno e mezzo di finta armonia quando il Sindaco licenzia in tronco tutta la sua giunta per inefficienza e dopo qualche giorno li riassume tutti perché nel frattempo erano diventati efficientissimi e, dopo qualche settimana, espelle il Vice Sindaco perché reo di aver votato in giunta contro un provvedimento della maggioranza, di cui lui non faceva parte (?) che avrebbe dovuto assumere personale in ruolo (non scelto da lui?) con l’abile strategia del Presidente (?) che dall’alto della sua intoccabilità rimase al suo posto eliminando così l’unico concorrente che, per il suo perverso modo di vedere la concorrenza politica, sarebbe stato in grado di ostacolarne il ritorno alla candidatura a Sindaco di Bompietro. E oggi dobbiamo constatare che lui ha avuto ragione ma soprattutto dobbiamo accettare che tutti abbiamo fallito dove qualcuno aveva ottenuto un grandissimo risultato: non ritenerlo all’altezza di tale carica. Ora ritorna il tempo delle promesse, degli accordi, delle unioni e dei dissapori che portano tutti a dire e a pensare qualcosa che potrebbe divenire una soluzione ai tantissimi problemi della nostra società lillipuziana. E poco importa se si prende in giro qualcuno o tutta la popolazione! È proprio la voglia, la volontà e la curiosità di provare a fare qualcosa porta tanti uomini e donne (finalmente!) a dare il loro impegno in modo diretto. Tanti giorni di attesa non hanno portato alcuna novità, quindi la candidatura a sindaco del presidente del consiglio comunale che, circondato da consiglieri comunali di maggioranza e minoranza e da ex assessori della giunta di cui sono stati maggioranza seppur licenziati e dimessisi per preparare l’avvento del presidente alla candidatura. Altra novità è il ritorno di Pippo Geraci che riprende la sua avventura per cercare di riaccendere la luce a Bompietro sostenuto da una parte di quello che fù il movimento pro Bompietro oltre che dagli amici storici. Nessun clamore suscita la bocciatura del Sindaco in carica che, per opera della sua stessa giunta comunale e del suo gruppo politico, dopo cinque anni passati ad amministrare Bompietro, secondo me malissimo e non solo per colpa sua, ha dovuto cedere il passo ad un assessore in carica subentrato come altri al posto del trombato ex Vice Sindaco che si ritrova candidato nella stessa lista in compagnia di colui che proprio cinque anni fa si contrapponeva a loro, candidandosi a sindaco, contro tutti coloro i quali ora gli fanno buona (?) compagnia sotto l’ala protettiva del sindaco e di parenti e nipoti subentrati ai loro genitori! Ecco chi soni i candidati:
Candidato a sindaco Di Gangi Luciano
assessori designati Filì Domenico e Gennaro Franco
La lista n° 1:
Albanese Daniele – Bianco Francesco – Di Gangi Giuseppe – Filì Maria Rita Girolama – Giuliano Giovanni – Librizzi Emilio – Librizzi Piero – Librizzi Rosario – Polito Giosuè – Richiusa Luciano – Richiusa Pierina – Sabatino Giuseppe Antonino.
Candidato a sindaco D’Alberti Calogero
assessori designati Di Stefano Piero e Macaluso Salvatore
La lista n° 2:
Alaimo Calogero – Cancellieri Patrizia – Ferrara Liborio – Fiorino Nicolino Giuseppe – Giglio Alessandra – La Tona Rosario – Macaluso Salvatore – Maruca Simonetta – Richiusa Leonardo – Saguto Vanessa Lucia – Vaccarella Lucio.
Candidato a sindaco GIUSEPPE GERACI detto PIPPO
assessori designati Di Gangi Carmelo e La Tona Damiano
La lista n° 3:
Ballarino Leonardo Maurizio – Calabrese Armando Patrizio – Dichiara Salvatore – Di Gangi Agnese Maria – Di Gangi Carmelo – Di Gioia Antonino – D’Ignoti Calogero – Federico Biagio – La Tona Damiano – Li Pira Antonino – Mascellino Sandra – Mocera Carlo.